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L’estensione della messa alla prova nel processo 231

A cura di Francesco Stridi

Il 19 Ottobre 2020 il GIP di Modena ha depositato una sentenza con la quale, ex art. 464- bis c.p.p., ha dichiarato estinto l’illecito amministrativo dipendente da reato di cui all’art. 25-bis del D.lgs. 231/01 contestato ad una S.p.A., in virtù dell’esito positivo della messa alla prova a cui l’ente era stato precedentemente ammesso. Nel caso di specie, il giudice modenese aveva consentito all’ente l’accesso all’istituto di cui agli artt. 168-bis c.p. e 464- bis in quanto dal programma di trattamento presentato dalla difesa della persona giuridica- elaborato d’intesa con l’UEPE- si evinceva chiaramente l’intenzione dell’ente di provvedere:

  1. alla eliminazione degli effetti negativi dell’illecito;
  2. a risarcire gli eventuali danneggiati;
  3. a revisionare il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ex D.lgs. 231/01, attraverso il potenziamento delle procedure di controllo relative all’area aziendale in cui si è verificata l’azione criminosa;
  4. allo svolgimento di una attività di volontariato, consistente nella fornitura gratuita di una parte della propria produzione in favore di un organismo religioso.

Tali attività, come detto, venivano positivamente svolte e, per l’effetto, il GIP pronunciava sentenza di non doversi procedere nei confronti l’ente per estinzione dell’illecito amministrativo.

La sentenza esaminata offre non pochi spunti riflessione rispetto ad un tema – l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova agli enti – rispetto a cui, in passato, un’altra giurisprudenza di merito si era espressa in senso opposto. Nello specifico, nel 2017, il Tribunale di Milano aveva ritenuto che “in assenza, de jure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui agli artt. 168 bis c.p., alla categoria degli enti”[1] la non applicabilità della messa alla prova alle società imputate ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. Secondo il giudice ambrosiano, che aveva ripreso il contenuto della sentenza 36272/16 delle SSUU, l’istituto della messa della messa alla prova ha natura “soprattutto sostanziale” e “persegue scopi socialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto”.[2] In conseguenza di ciò, considerata la natura sostanziale dell’istituto in esame nonché in virtù del principio di legalità di cui all’art. 25 co. 2 della Costituzione, il quale demanda il potere di normazione di materia penale al Parlamento, non è possibile estendere per analogia l’applicabilità della messa alla prova alle persone giuridiche. Sul punto, ricorda il Tribunale ambrosiano che: “la sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa”.[3]

Le conclusioni raggiunte dal Tribunale di Milano, tuttavia, non appaiono in toto condivisibili. In primis, non sembra corretta l’interpretazione “tranchant” della sentenza delle SSUU ripresa dal Tribunale milanese secondo cui la messa alla prova sia da considerare totalmente un istituto di diritto sostanziale. Gli stessi Ermellini, infatti, nella sentenza richiamata, hanno statuito che l’istituto della messa alla prova realizza comunque un “nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo”.[4] La Corte Costituzionale, inoltre, con la sentenza 240 del 2015, ha evidenziato soprattutto come l’istituto de quo consista “in un nuovo procedimento speciale, alternativo al nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.”[5] (sottolineatura aggiunta) Sempre la Consulta, inoltre, ha precisato in tempi recenti, con la sentenza 91 del 2018, che la messa alla prova “non è una sanzione penale, poiché la sua esecuzione è rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare, con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso”.[6](sottolineatura aggiunta). In estrema sintesi, pur presentando alcuni profili di diritto sostanziale, la messa alla prova va considerata a tutti gli effetti una norma di diritto processuale. Per l’effetto, non sembra corretta l’argomentazione – basata sul principio di legalità- ostativa all’applicazione della messa alla prova agli enti. Ad ulteriore conferma della natura processuale dell’istituto de quo, vi è anche una recente pronuncia della Corte d’Appello di Roma che così si è espressa: “l’istituto della messa alla prova ha natura processuale, di talché rispetto ad esso non opera il principio di retroattività della lex mitior, bensì quello del tempus regit actum”. [7] (sottolineatura aggiunta)

Alla luce di quanto rappresentato, la messa alla potrebbe estendersi anche agli enti in ossequio agli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/01, secondo cui è possibile applicare la normativa processuale penale alle persone giuridiche per quanto non previsto nella Decreto 231. Tuttavia, non pochi dubbi sorgono rispetto alle implicazioni pratiche di suddetta norma. Anzitutto, per ciò che concerne le condizioni soggettive previste per l’accesso al rito (v. comma 5 dell’articolo 168-bis c.p.), non è chiaro come la persona giuridica possa rendere una dichiarazione di non trovarsi una delle condizioni previste dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 c.p., non essendo tali norme sostanziali espressamente applicabili agli enti.[8] In secondo luogo, un altro problema che pone la sentenza del GIP del Tribunale di Modena, è dato dalla circostanza per cui il giudice, il quale applichi ad un ente l’istituto della messa alla prova così come formulato ora, sarebbe chiamato a valutare il ravvedimento della persona giuridica basando la sua valutazione sulla review di un Modello Organizzativo senza, però, aver preso contezza se il contenuto di quello precedente era idoneo ad evitare reati della specie di quello in concreto verificatosi.[9] Infine, stando all’attuale formulazione dell’art. 168-bis c.p., l’applicazione della messa alla prova resterebbe preclusa per i reati puniti con pena detentiva maggiore a quattro anni, indipendentemente dal fatto che essa sia sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria. Siffatta impostazione, come sottolineato da autorevole dottrina, “rischia di rendere poco appetibile l’alternativa e dunque di consegnare all’insuccesso la proposta”.[10] In particolare, è stato evidenziato come il non includere le manifestazioni più gravi di criminalità, renderebbe ben poco appetibile l’istituto della messa alla prova per gli enti “in quanto, secondo una analisi costi-benefici, converrebbe di più a questi adempiere alla sanzione loro irrogata piuttosto che riparare le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito mediante l’adozione di strutture atte a prevenirli in futuro”. [11] A tali conclusioni, con ulteriori precisazioni, è giunto anche il Tribunale di Bologna che da ultimo si è espresso sul tema in esame. In particolare, scrive il giudice bolognese: “La disciplina della sospensione del processo con messa alla prova non è applicabile alle persone giuridiche chiamate a rispondere ai sensi della 231/2001 in quanto non compatibile nei suoi aspetti sostanziali (oltre che, in misura minore, processuali), posto che non ne condividono la eadem ratio”.[12]

In conclusione, l’applicazione dell’istituto della messa alla prova agli enti – così come formulato ora – non risulta applicabile nel concreto alle persone giuridiche. Sul punto, dunque, è auspicabile che il Legislatore intervenga direttamente al fine di estendere in modo efficace l’istituto de quo anche per gli enti.


[1] Tribunale di Milano, Ordinanza, 27 marzo 2017, pag. 2.

[2] Cass. Pen. SS.UU., sentenza n. 36272, 16 Marzo 2016.

[3] Cass. Pen. SS.UU., sentenza n. 5655, 26 Maggio 1984.

[4] Cass. Pen. SS.UU., sentenza n. 36272, 16 Marzo 2016.

[5] Corte Costituzionale, sentenza n. 240, 26 Novembre 2015.

[6] Corte Costituzionale, sentenza n. 91, 27 Aprile 2018, richiamata anche nella sentenza 75 del 24 Aprile 2020

[7] Corte d’Appello Roma Sez. III, sentenza del 1° Giugno 2018.

[8] M. Riccardi e M. Chilosi, La messa alla prova nel processo “231”: quali prospettive per la diversion dell’ente?, in Diritto Penale Contemporaneo, Fascicolo 10, 2017, pag. 62.

[9] G. Sacco, Luci ed ombre della Restorative Justice nel processo agli enti, in Archivio Penale 2019-n. 3, pag. 14.

[10] G. Fidelbo e R. A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in Resp. amm. soc. enti, 4, 2016, pag. 13

[11] G. Sacco, Luci ed ombre della Restorative Justice nel processo agli enti, op. cit., pag. 14.

[12] Tribunale di Bologna, Ordinanza, 10 dicembre 2020, pag. 2.

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