Licenziamento ritorsivo: la Suprema Corte torna a pronunciarsi
A cura di Ottavio Pannone
Con la pregevole decisione che si segnala, la Suprema Corte[1] ha confermato la sentenza della Corte di Appello, che in linea con la pronuncia di primo grado aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato in danno del dirigente-ricorrente, con condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dalla data del recesso fino a quella della effettiva riammissione in servizio, oltre al versamento dei contributi previdenziali, accessori e spese.
La Corte territoriale, per quanto ricorda il giudice di legittimità, condivideva l’assunto del primo giudice che aveva ritenuto la natura ritorsiva del licenziamento sulla scorta di una serie di elementi indiziari, evidenziando, al contrario, che non risultavano compiutamente provate le ragioni espressamente indicate dalla datrice nella lettera di licenziamento, in quanto dall’istruttoria svolta, da un lato, non era emersa la “profonda riorganizzazione” posta dalla società a fondamento del recesso e, d’altro canto, non erano state provate “le mutate esigenze che hanno imposto in un breve lasso di tempo la soppressione della posizione direction e il collocamento dell’area direction in altra direzione aziendale”; né emergevano gli ulteriori elementi indicati dalla società in sede di recesso.
Né risultava poi “provato perché la scelta del lavoratore da licenziare” sarebbe caduta sul ricorrente e non su altri e che non vi fossero altre posizioni aziendali coerenti con il profilo dell’istante. Per di più era emerso che quest’ultimo aveva assunto, nei mesi immediatamente precedenti alla data del licenziamento, “iniziative in contrasto con gli interessi e la volontà dell’amministratore della società”.
Ebbene, la società nel censurare la decisione, affidava le sue doglianze ad un unico ed articolato motivo, che viene compiutamente analizzato dalla Corte di Cassazione, con circostanziata motivazione, arricchita dal riferimento di completi precedenti giurisprudenziali.
In effetti, per quanto rileva la Suprema Corte, con l’unico motivo di ricorso ritenuto inammissibile, veniva denunciata la “violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e degli artt. 1345 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.”.
A ben vedere la società ricorrente criticava la decisione impugnata in quanto: a) si sarebbe limitata “a statuire la ritorsività del licenziamento senza prendere minimamente in esame le argomentazioni, le prove e le testimonianze emerse nei due gradi di giudizio”; b) si fonderebbe “su mere presunzioni, che non sono certamente gravi, precise e concordanti”; c) si fonderebbe, poi, su “circostanze che non corrispondono alla realtà (e che sono contraddette sia documentalmente che dai testimoni)”; d) negherebbe “l’oggettiva riorganizzazione e soppressione della posizione del dott. F (nonostante le prove documentali e testimoniali)”; e) realizzerebbe, “senza alcuna fondata motivazione, una errata immedesimazione del dott. G e del Consiglio di Amministrazione”;
Ebbene, la Cassazione, nello statuire la inammissibilità del ricorso, richiama specifici precedenti[2], ai quali rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., ricordando che per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, come nella specie accertato, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso[3], dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento [4].
Come diffusamente ricorda la Cassazione, dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni[5]; in particolare, ben può il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso[6].
È stato altresì specificato che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso[7].
La puntuale decisione non manca poi di evidenziare che “il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame” innanzi alla Corte di legittimità, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano nella specie la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata, come già affermato da un costante indirizzo giurisprudenziale[8].
Né tanto meno, per la Cassazione, può criticarsi la sentenza impugnata “per il ragionamento presuntivo operato, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche[9],
Infatti, secondo un diffuso indirizzo giurisprudenziale, va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori[10], spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’íd quod plerumque accidit[11].
Ebbene, richiamando l’orientamento citato, la sentenza segnalata[12] evidenzia che “la parte ricorrente formalmente prospetta errori di diritto – peraltro anche con riguardo ad una pretesa violazione dell’art. 18 St. lav. che, come noto, riguarda le conseguenze sanzionatorie del licenziamento invalido ma non i suoi presupposti giustificativi – ma, nella sostanza, come reso palese dall’illustrazione del motivo, contesta inammissibilmente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di primo e secondo grado, a partire dalla mancanza di prova della giustificazione addotta a fondamento del recesso”.
Sulla base di tali complete argomentazioni, la Cassazione stabilisce, in sintesi, che, una volta acclarata l’insussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, la Corte territoriale, confermando il convincimento già espresso dal primo giudice, “ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi; si tratta evidentemente di un accertamento di fatto, non suscettibile di riesame in questa sede così come non lo è il ragionamento indiziario svolto dai giudici del merito”.
Non senza ricordare che le Sezioni unite civili hanno più volte ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti”[13].
Per un maggior approfondimento in tema di prova per presunzioni del licenziamento ritorsivo[14], vale pur ricordare altro pregevole intervento della Suprema Corte[15] laddove stabilisce che la Corte territoriale “ha invero fatto esatta applicazione del principio di diritto, secondo il quale “il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta – assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 – costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni”[16].
In particolare, si è osservato, in detta pronuncia, come il licenziamento ritorsivo sia stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità “data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla I. n. 604 del 1966, art. 4, della I. n. 300 del 1970, art. 15, e della I. n. 108 del 1990, art. 3, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all’art. 18 L. n. 300/1970”[17].
Ciò posto, la Corte afferma : “va ribadita la regola che l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio”.
Ma, come ben evidenziato, trattasi di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali “presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.
In aderenza a tale orientamento[18] è stato pur ribadito che “l’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso”[19].
[1] Cassazione Sezione Lavoro – n. 23702/2023 depositata il 03/08/2023.
[2] tra le più recenti v. Cass. n. 6838 del 2023; Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022.
[3] (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019)
[4] Cass. n. 5555 del 2011.
[5] (Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010)
[6] (Cass. n. n. 23583 del 2019)
[7] (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018).
[8] (per tutte v. Cass. n. 6838 del 2023 e Cass. n. 26399 del 2022, già citate).
[9] (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010)
[10] (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017)
[11] (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017)
[12] Nota 1
[13] (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020).
[14] Licenziamento ritorsivo? Lavoratore può provarlo anche con presunzioni di Paolo Marini in Altalex 16 luglio 2020.
[15] (Cassazione 11705/2020)
[16] (tra le altre Cass. n. 17087/2011)
[17] (Cass. 18 marzo 2011 n. 6282)
[18] (conf. n. 24648/2015)
[19] (Cass. n. 23583/2019)