venerdì, Luglio 26, 2024
Di Robusta Costituzione

Presidenzialismo: tra mito e realtà

Presidenzialismo: tra mito e realtà

SOMMARIO: 1. Il sistema presidenziale (USA) – 2. Il sistema semipresidenziale (Francia) – 3. La riforma proposta nel 2018 – 4. Stabilità politica e sistema politico

 

Il nostro Paese è sempre stato caratterizzato, sin dalla nascita della Repubblica, da crisi di governo molto frequenti.  Dal 1948 al Governo Meloni, abbiamo infatti avuto ben 31 Presidenti del Consiglio (30 uomini e una sola donna) e 68 governi: quello durato più al lungo è stato il Governo Berlusconi II (1412 giorni in carica, dal 2001 al 2005), mentre quello durato di meno è stato il Governo Fanfani I (appena 22 giorni in carica, nel 1954)[1].

Da un lato, si potrebbe pensare che tale meccanismo sia perfettamente normale, essendo il nostro un sistema parlamentare, dove a essere eletto è il Parlamento e non il Governo. Quindi, non rappresenterebbe una stortura il fatto che all’interno di una medesima legislatura si alternino differenti compagini di governo.

D’altro canto, le frequenti crisi di governo potrebbero essere intese come indice di una forte instabilità politica del nostro Stato, identificandosi come elemento negativo per la vita politica e, più nello specifico, come una stortura dei maccanismi democratici: un vero e proprio problema da risolvere. Ebbene, i partiti politici che sostengono tale opinione, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza, hanno negli anni cercato di elaborare una soluzione, e puntualmente la panacea a tutti i problemi descritti viene trovata nella modifica della forma di governo: bisogna passare al presidenzialismo. Ma è davvero così?

In questo articolo, si cercherà di fare chiarezza tra le varie forme di governo, troppo spesso confuse tra loro nelle dinamiche politiche, e di capire se effettivamente un passaggio a una forma di governo presidenziale sia una soluzione valida per contrastare la lamentata instabilità politica.

 

  1. Il sistema presidenziale (USA)

Quando si cerca di definire a livello teorico la forma di governo presidenziale o quella semipresidenziale, si deve necessariamente partire dai due Stati in cui tali sistemi trovano la propria massima espressione: rispettivamente, Stati Uniti d’America e Francia. Infatti, se da un lato ci sono state delle “esportazioni” di tali forme di governo anche in altri Stati, tali esperienze sono comunque secondarie rispetto a quella statunitense e quella francese e, inoltre, proprio a quest’ultime si ispirano, magari cambiando qualche meccanismo ma lasciando inalterato il funzionamento di base.

Partendo dal presidenzialismo nell’esperienza statunitense, appare opportuno evidenziarne le caratteristiche principali[2]:

  • il potere legislativo è attribuito a un organo chiamato Congresso, composto dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato: nella prima i seggi sono distribuiti tra i vari Stati federati proporzionalmente alla popolazione di ciascuno (quindi gli Stati più grandi dispongono di più seggi), nel secondo sono attribuiti due seggi a ogni Stato federato. Ma c’è anche un’altra caratteristica importante: mentre il Presidente degli Stati Uniti viene eletto ogni quattro anni, la Camera viene rinnovata ogni due anni, mentre per quanto concerne il Senato ne viene rinnovato un terzo ogni due anni, e ciò significa che non sempre c’è corrispondenza tra l’elezione del Presidente e quella dei membri del Congresso;
  • il potere esecutivo è affidato a un Presidente, che è allo stesso tempo sia Capo dello Stato sia Capo del Governo: tale potere è spiegabile grazie alla forte legittimazione del Presidente, il quale è eletto direttamente dai cittadini. Compito di questa figura è quello di dirigere il c.d. Gabinetto, formato da vari Segretari (che potremmo paragonare ai nostri Ministri) ognuno il quale dirige un Dipartimento (che potremmo paragonare ai nostri Ministeri);
  • il potere giudiziario, infine, è assegnato alla Corte Suprema federale, composta da nove giudici nominati dal Presidente che durano in carica per tutta la vita[3].

Il rapporto tra questi tre poteri è rigido, pensiamo ad esempio che il Congresso non può sfiduciare il Presidente, mentre il Presidente non può sciogliere il Congresso. Tuttavia, tale meccanismo riesce a funzionare grazie al cd. sistema dei pesi e contrappesi (checks and balances), nel senso che tra i vari organi avviene comunque un’interazione, se pure meno intensa rispetto a quella del nostro Stato: ad esempio il Presidente ha il potere di veto sulle leggi approvate dal Congresso, mentre al Congresso spetta comunque l’approvazione del bilancio (potere di borsa), potendo così influenzare la distribuzione dei fondi rispetto alle varie materie e amministrazioni.

Un sistema che potrebbe sembrare apparentemente molto stabile, nasconde anch’esso in realtà delle insidie. Si è detto che l’elezione di Presidente, Senato e Camera non avvengono sempre simultaneamente. Esistono, infatti, le c.d. elezioni di metà mandato[4] (Midterm Elections): dopo due anni dall’elezione del Presidente, quindi a metà mandato, i cittadini statunitensi sono chiamati a rinnovare completamente la Camera dei Rappresentanti (la cui durata, come si è detto, è biennale) eletta due anni prima contestualmente all’elezione del Presidente, nonché un terzo del Senato (come si è detto, infatti, ogni due anni viene rinnovato un terzo del Senato) [5].

Tali elezioni sono necessarie per bilanciare i grandi poteri di cui è dotato il Presidente nel sistema presidenziale, ma possono originare una vera e propria situazione di stallo: immaginiamo che dopo le elezioni di metà mandato siano cambiate le maggioranze presenti nel Congresso, e che quindi ci sia un Presidente appartenente a uno schieramento politico, e un ramo o entrambi del Congresso dominati dalla maggioranza dello schieramento politico opposto. In tal caso, né il Congresso potrebbe costringere il Presidente a dimettersi attraverso un voto di sfiducia, né il Presidente potrebbe sciogliere il Congresso: si creerebbe una situazione nella quale sono costretti a collaborare un Presidente e un Congresso (o parte di questo) in mano a schieramenti politici diversi, con idee diverse e metodi diversi, ed è questo il fenomeno che prende il nome di governo diviso[6]. Il ruolo del potere esecutivo viene indebolito, in quanto il Presidente è costretto a fare delle concessioni al partito opposto per poter continuare a governare.

Per capire quanto una situazione del genere possa essere difficile da gestire, possiamo far riferimento alle elezioni di metà mandato del 6 novembre 2018: il Presidente in carica era il repubblicano Donald Trump, il quale aveva la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, eppure tali elezioni hanno sancito il passaggio della maggioranza della Camera in mano ai democratici. Tutto ciò ha avuto conseguenze enormi. Come detto, infatti, compito del Congresso è approvare al termine di ogni anno fiscale la legge di bilancio, attraverso cui si ripartiscono le risorse finanziarie tra le varie attività amministrative: ma se il Congresso non riesce a emanare la legge di bilancio prima che termini il periodo fiscale in corso, tutte le attività amministrative giudicate non essenziali vengono sospese. Ad esempio, è considerata essenziale l’attività di chi controlla il traffico aereo o degli uffici postali ma luoghi come parchi o musei sono chiusi immediatamente, mentre i centri di ricerca medica, o i centri per la prevenzione delle malattie o ancora la NASA, vedono ridotto il proprio organico: i dipendenti che lavorano presso attività non essenziali, quindi, vengono mandati a casa senza percepire alcuno stipendio[7].

Questa procedura, che dura fino a quando la legge di bilancio non sia approvata, è chiamata government shutdown ed è prevista dall’Antideficiency Act, e si è concretizzata varie volte nella storia statunitense. Tuttavia, quella in cui è durata più a lungo, vale a dire ben 35 giorni, si è verificata proprio in seguito alle elezioni di metà mandato del 2018: il Presidente Trump, repubblicano, e la Camera, democratica, non riuscivano ad accordarsi circa lo stanziamento dei fondi. Questo esempio ci fa comprendere come anche un sistema presidenziale, apparentemente stabile, può dar vita a situazioni di instabilità politica pur non generando alcuna crisi di governo.

 

  1. Il sistema semipresidenziale (Francia)

Diverso è, invece, il semipresidenzialismo francese. Il potere legislativo è attribuito al Parlamento della Repubblica francese, composto dall’Assemblea Nazionale e dal Senato, anche se quest’ultimo è molto meno rilevante rispetto all’Assemblea. Il potere esecutivo è c.d.  bicefalo, cioè condiviso tra il Presidente della Repubblica, che viene eletto direttamente dai cittadini, e il Capo del Governo: da un lato è il Presidente che ha il compito di nominare il Primo ministro e, su proposta di quest’ultimo, anche gli altri membri del Governo, ma dall’altro il Governo deve necessariamente ottenere la fiducia da parte dell’Assemblea Nazionale[8].

Quindi, volendo riassumere, possiamo dire che l’Assemblea nazionale può sfiduciare il Governo, in quanto quest’ultimo non ha una legittimazione popolare essendo nominato dal Presidente, ma non può obbligare il Presidente a dimettersi, essendo eletto direttamente dai cittadini. Tutto ciò ha ovviamente delle ricadute importanti: il Presidente, infatti, non potrà nominare un Primo ministro sgradito al Parlamento, poiché quest’ultimo non darebbe il proprio consenso. I rischi di instabilità politica che un siffatto sistema crea, sono evidenti.

Originariamente l’incarico del Presidente durava sette anni, mentre l’Assemblea Nazionale veniva rinnovata ogni cinque anni: questo causava il rischio della c.d. coabitazione[9], vale a dire che si creasse all’interno dell’Assemblea Nazionale una maggioranza diversa rispetto a quella che aveva eletto il Presidente, rischio che si è concretizzato per ben tre volte[10]. L’ampiezza dei poteri del Presidente è, di conseguenza, variabile: se il Presidente e la maggioranza nell’Assemblea Nazionale appartengono allo stesso schieramento politico, allora sicuramente prevarrà la figura del Presidente e il Primo ministro avrà un ruolo nettamente secondario; ma se si verifica un’ipotesi di coabitazione, allora Presidente e Primo ministro saranno costretti a cooperare, pur appartenendo a schieramenti politici con idee e metodi diversi. Oggi il rischio di coabitazione è molto più ridotto rispetto al passato, in quanto anche il Presidente rimane in carica cinque anni e le elezioni presidenziali e quelle legislative si tengono a poche settimane di distanza: questo, tuttavia, non elimina totalmente il rischio di coabitazione.

E anzi, è necessario proseguire la nostra analisi. Parliamo di una forma di governo all’interno della quale comunque l’organo legislativo può sfiduciare il Governo in carica, creando una vera e propria crisi. La stabilità francese, infatti, si è retta finora non tanto sulla forma di governo semipresidenziale, bensì sul sistema politico alla base: bipolare o bipartitico. In un sistema politico del genere, per eliminare il rischio di coabitazione è sufficiente avvicinare le elezioni legislative e presidenziali, sia perché è molto improbabile che uno stesso elettore voti due partiti diversi a poche settimane di distanza sia perché essendoci solo due schieramenti politici, giocoforza, uno dei due otterrà la maggioranza assoluta.

Eppure, nelle ultime elezioni legislative del 2022, è accaduto un qualcosa di mai verificatosi nella storia francese: sebbene lo schieramento politico dell’attuale Presidente Macron abbia vinto le elezioni presidenziali[11], non ha ottenuto la maggioranza assoluta in Assemblea, poiché alle due classiche coalizioni di centrosinistra e centrodestra, se ne è aggiunta una terza di sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon. L’attuale governo, infatti, si regge sul sostegno di questo nuovo schieramento politico, indebolendo inevitabilmente il potere del Presidente: è stato necessario un accordo, dopo le elezioni (e non prima), tra i due schieramenti politici. Questa modifica del sistema politico francese cambia tutto: se prima il rischio di coabitazione era inteso come una situazione in cui c’era un Presidente di uno schieramento politico e un’Assemblea di diverso schieramento, ma in un sistema in cui gli schieramenti erano solo due, oggi invece se ne aggiunge un terzo, rendendo quasi obbligata la mediazione tra i vari schieramenti, essendo molto improbabile per uno solo di essi raggiungere la maggioranza assoluta, non essendoci più un sistema bipolare/bipartitico bensì tripolare[12].

 

  1. La riforma proposta nel 2018

Possiamo adesso analizzare la proposta di legge C. 716[13], presentata alla Camera dei Deputati nel 2018, avente come prima firmataria Giorgia Meloni. Si specifica che tale proposta non è più attuale, nel senso che non potrebbe entrare in vigore, in quanto è stata già discussa e respinta in Parlamento nel maggio 2022. Non si tratta, quindi, della riforma progettata dal Governo Meloni dopo le elezioni di settembre 2022, bensì di una proposta antecedente, risalente, come detto, al 2018, quindi ben quattro anni fa. Tuttavia, anche se ancora non conosciamo il modo in cui il Governo Meloni intende revisionare la forma di governo, dato che è stata più volte chiarita la volontà di procedere in tal senso ma non sono ancora state descritte le modalità, l’analisi della proposta di legge del 2018 può darci un’idea di cosa farà l’attuale maggioranza, dato che la prima firmataria di tale proposta, come detto, era proprio la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (all’epoca Deputata). Tutto ciò premesso, si possono evidenziare le principali novità proposte.

La modifica principale, è quella relativa alla figura del Presidente della Repubblica, che durerebbe in carica cinque anni e non più sette. Si prevede che “il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto”, e non più dal Parlamento in seduta comune, e che possa “essere rieletto una sola volta”, mentre oggi la possibilità di rielezione, pur essendosi verificata sia con il Presidente Napolitano sia con il Presidente Mattarella, non è espressamente prevista dalla Costituzione, ed è anzi da molti considerata una stortura. A essere disciplinate, inoltre, sono anche le modalità di elezione. Si prevede, infatti, che le candidature possano essere presentate “da un gruppo parlamentare presente in almeno una delle Camere o da duecentomila elettori, ovvero da deputati e senatori, membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, consiglieri regionali, presidenti delle Giunte regionali o sindaci, nel numero stabilito dalla legge”. Viene ideato, tra l’altro, un sistema elettorale a doppio turno, in quanto tra i vari candidati viene eletto “il candidato che ha ottenuto la metà più uno dei voti validamente espressi” e che, qualora nessuno di essi consegua tale maggioranza, “il quattordicesimo giorno successivo si procede a una seconda votazione tra i due candidati che hanno conseguito il maggior numero di voti”.

Passiamo invece all’esame delle modifiche relative al Governo. Il Presidente del Consiglio viene ridefinito Primo ministro, e insieme agli altri Ministri compone il Consiglio dei Ministri: è previsto, come avviene già oggi, che sia il Presidente della Repubblica a nominare il Primo ministro e, su proposta di questo, i Ministri. Tuttavia, è disposto anche che “il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri, salva delega al Primo ministro”, e che “il Presidente della Repubblica dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri, con il concorso del Primo ministro”.

Ultima modifica interessante, è quella relativa al processo di sfiducia del Governo. Prima di tutto, è previsto che la mozione di sfiducia debba essere approvata a maggioranza assoluta, mentre oggi la Costituzione non prevede alcun quorum. Ma la novità più importante, è l’introduzione della c.d. sfiducia costruttiva, in quanto la mozione di sfiducia “deve indicare la persona alla quale il Presidente della Repubblica deve conferire l’incarico di Primo ministro”. Quindi sarà possibile sfiduciare il Governo in carica, ma prima si dovrebbe formare una maggioranza pronta a sostenere un’altra compagine di governo: dato che è ora previsto che la mozione debba essere approvata dalla maggioranza assoluta, servirebbe non solo che la maggioranza dei componenti della Camera o del Senato sia d’accordo con la mozione di sfiducia, bensì anche col Primo ministro alternativo in essa indicato.

Appare evidente che la proposta di legge poc’anzi analizzata non porterebbe al presidenzialismo, come spesso invece si sente nell’agone politico, bensì a un sistema semipresidenziale: questa premessa terminologica appare doverosa. Proseguendo l’analisi, possiamo affermare senza tema di smentita che l’obiettivo dei proponenti è garantire una maggiore stabilità politica: ma questo risultato sarebbe davvero ottenuto? In realtà, anche nei sistemi presidenziali e semipresidenziali ci sono forti rischi di instabilità, come si è ampiamente dimostrato nei paragrafi precedenti. Nello specifico, si creerebbero i medesimi meccanismi e il medesimo rischio di coabitazione già descritti in riferimento al semipresidenzialismo francese: anche se il Presidente della Repubblica venisse eletto direttamente dai cittadini, comunque il Governo necessiterebbe della fiducia da parte del Parlamento e sarebbe esposto continuamente al rischio di una mozione di sfiducia; quindi, senza un sistema bipartitico/bipolare alla base, e il nostro sicuramente non lo è, il problema della stabilità politica sarebbe tutt’altro che risolto, rimanendo comunque necessari degli accordi tra i vari partiti presenti in Parlamento.

Certo, il Presidente della Repubblica non può essere sfiduciato, ma il suo Governo sì: potrebbero comunque susseguirsi diversi governi all’interno di una medesima legislatura, e l’unica differenza rispetto allo stato attuale sarebbe il nuovo ruolo del Presidente della Repubblica. Sarebbe poi così diverso rispetto a ciò che accade? Teniamo presente, inoltre, che pur durando in carica sia il Parlamento sia il Presidente per cinque anni, ci potrebbe comunque essere l’ipotesi che elezioni presidenziali e legislative si svolgano in periodi distanti tra loro (immaginiamo, ad esempio, il caso di morte o dimissioni del Presidente): in tal caso, il rischio di coabitazione sarebbe ancora più forte. Certo, è introdotta la sfiducia costruttiva, ma questa non è certamente un sicuro argine a crisi di governo che rimangono non solo possibili, ma addirittura probabili in un sistema politico come il nostro[14].

Un’altra considerazione va fatta sul ruolo del Presidente della Repubblica. Quest’ultimo continuerebbe esattamente come oggi a rappresentare “l’unità della Nazione” e a vigilare “sul rispetto della Costituzione. Inoltre, conserverebbe il potere di sciogliere le Camere o una sola di esse (senza necessità di alcuna controfirma), presiederebbe il Consiglio Supremo di Difesa, sarebbe a capo delle forze armate, potrebbe concedere grazie e commutare pene, cessando solo di presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura (il quale sarebbe presieduto dal primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione). Tutte queste prerogative presuppongo imparzialità, terzietà rispetto all’agone politico, qualità oggi garantite dall’elezione del Presidente da parte del Parlamento e non direttamente da parte dei cittadini: come farebbe un soggetto oggettivamente di parte, poiché candidato da un determinato partito, a rappresentare l’unità nazionale o vigilare sulla Costituzione?[15] Vale davvero la pena perdere una figura super partes, per una stabilità politica che non è neanche certa?

  1. Stabilità politica e sistema politico

Finora si è parlato di problematiche connesse al sistema presidenziale o semipresidenziale in sé, cioè inteso anche solo come sistema teorico, quindi problematiche che potrebbero prodursi ovunque tale sistema venga attuato. A tali problematiche generali, che prescindono dallo Stato a cui si fa riferimento, bisogna aggiungere delle altre complessità più concrete. Va detto, infatti, che il sistema presidenziale o semipresidenziale non funziona allo stesso modo in qualsiasi Stato: anche applicando la medesima forma di governo a due Stati diversi, i risultati non saranno uguali in quanto una forma di governo anche identica produce conseguenze diverse a seconda del sistema politico in cui viene situata. Laddove si è tentato di esportare il presidenzialismo statunitense o il semipresidenzialismo francese, ad esempio, in Africa o in Asia, questo ha assunto connotati autoritari: c’è stata una netta prevalenza del potere esecutivo e, nello specifico, del Presidente, aspetto che ha compromesso i meccanismi democratici dei vari Stati coinvolti[16]. Ma possiamo prendere ad esempio anche la stessa Francia, in cui il passaggio da un sistema politico bipolare/bipartitico a un sistema tripolare ha esposto lo Stato a una instabilità politica molto maggiore, pur rimanendo invariata la forma di governo semipresidenziale.

Tutto questo ci dimostra che applicando in Italia il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, non è assolutamente certo che si otterrebbero i medesimi risultati statunitensi o francesi, tutt’altro. Possiamo definire il sistema politico come “l’insieme delle interrelazioni fra unità politicamente significative (individui, gruppi, strutture) e fra processi attraverso i quali si producono decisioni che riguardano una determinata collettività[17]”. E non c’è dubbio che il nostro sistema politico sia molto diverso da quello statunitense o francese. Negli USA c’è un bipartitismo secolare che vede la contrapposizione tra democratici e repubblicani, e in Francia è da poco avvenuta una modifica epocale che ha portato a un sistema tripolare. In Italia, invece, c’è sempre stato un pluripartitismo radicato[18] che difficilmente ha dato vita a logiche bipolari, figurarsi bipartitiche. E anche laddove si sono costituite coalizioni nella c.d. Seconda Repubblica, ad esempio quando si sono sfidati Berlusconi a capo della coalizione di centrodestra e Prodi a capo della coalizione di centrosinistra, la coalizione vittoriosa non è stata esente da crisi di governo: questo perché di solito, quando in Italia si costituiscono delle coalizioni, queste non sono davvero “forti” bensì si verificano frequenti contrasti tra i partiti che compongono la coalizione stessa[19]. Non si può quindi parlare di riforma presidenziale o semipresidenziale, senza considerare il sistema politico italiano, molto diverso rispetto a quello in cui tali forme di governo sono state ideate.

Inoltre, sia in USA sia in Francia la legge elettorale, altro elemento non trascurabile, è improntata nettamente a un meccanismo maggioritario. E tuttavia, questo può portare al rischio di escludere completamente le forze politiche di piccole dimensioni, in uno Stato come il nostro in cui i vari partiti sono incapaci di creare coalizioni stabili prima delle elezioni[20]: siamo sicuri che questo sarebbe socialmente accettato nel nostro Stato? La domanda forse più rilevante, è infatti la seguente: in caso di sistema interamente maggioritario, le forze politiche sarebbero in grado di allearsi, creando un sistema bipolare davvero forte? Prendiamo come riferimento le ultime elezioni: mentre il centrodestra ha presentato una sola coalizione, non si è creata un’unica coalizione di centrosinistra, bensì hanno corso separatamente M5S, PD e Azione/Italia Viva. La coalizione di centrodestra ha ottenuto la maggioranza in Parlamento, pur avendo ottenuto un numero di voti totali inferiori, dato che un terzo dei seggi è attribuito col metodo maggioritario: possiamo immaginare cosa sarebbe accaduto, in una situazione come questa, in cui solo uno schieramento politico è stato in grado di coalizzarsi, se tutti i seggi (e non solo un terzo) fossero stati assegnati col maggioritario? Il risultato sarebbe stato enorme, cioè la quasi scomparsa dal Parlamento delle forze politiche che non si sono coalizzate, pur avendo ottenuto la maggioranza dei voti in termini assoluti: come avrebbero reagito gli elettori a un risultato simile?

Non si vuole dire che il sistema proporzionale sia migliore di quello maggioritario o viceversa, piuttosto l’obiettivo è quello di far comprendere al lettore che la revisione della forma di governo porta con sé tante complessità, le quali sono completamente obnubilate da un dibattito politico semplicistico imperniato, troppo spesso, su logiche plebiscitarie[21]. Eppure, non si possono dare risposte semplici a problemi complessi.

Concludendo, quindi, non si sta esprimendo un parere contrario a priori a modifiche della forma di governo, né si sta dicendo a priori che la forma di governo presidenziale o quella semipresidenziale non aiuterebbe il nostro Stato ad aumentare la propria stabilità. Ciò che qui si vuole contestare, è quella visione in virtù della quale una riforma presidenziale o semipresidenziale renderebbe di sicuro politicamente stabile il nostro Paese, come se ci fosse un qualche automatismo o rapporto di causa-effetto tra presidenzialismo/semipresidenzialismo e stabilità politica: tale tesi non può essere sostenuta, in quanto la stabilità politica di un Paese non poggia esclusivamente sulla sua forma di governo, bensì anche sul sistema politico sottostante.

Ma quindi, presidenzialismo sì oppure no? La risposta è: dipende. Dipende da come viene elaborata la riforma, ma dipende anche da quello che è il personale modo di ciascuno di interpretare il rapporto tra partiti politici ed elettori. Si può essere a favore di una revisione della forma di governo o si può essere contrari, l’importante è avere ben chiaro che quello del presidenzialismo esente da qualsiasi forma di instabilità politica e che cura ogni male è soltanto un mito. La stabilità politica totale la si ha solo nei regimi totalitari: ma a quale prezzo?

 

[1] Le informazioni a riguardo sono reperibili qui: https://www.senato.it/leg/ElencoMembriGoverno/Governi.html

[2] V. R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, edizione 2020, pp. 155-156

[3] Sui rischi che ciò comporta, v. V. A. Lovero, Tra vita e morte: il problema delle armi negli Stati Uniti d’America, 2022, par. 1, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/tra-vita-e-morte-il-problema-delle-armi-negli-stati-uniti-damerica-43123

[4] V. L. Stroppiana, Stati Uniti, 2021, pp. 65-66

[5] Tali elezioni hanno un enorme valore politico, in quanto i cittadini possono votare nuovamente al favore del Presidente se hanno apprezzato il suo operato, viceversa voteranno i suoi avversari

[6] V. M. Volpi, Libertà e autorità: la classificazione delle forme di Stato e delle forme di governo, 2010, pp. 152-153

[7] Maggiori informazioni sono disponibili qui: https://www.theguardian.com/world/2013/sep/29/us-government-shutdown-services-affected

[8] V. M. Volpi, op. cit., p. 158

[9] V. R. Bin – G. Pitruzzella, op. cit., pp. 158-159

[10] La prima coabitazione (1986-1988) fra il presidente socialista François Mitterrand e il primo ministro neogollista Jacques Chirac. La seconda coabitazione (1993-1995) fra il presidente socialista François Mitterrand e il primo ministro neogollista Édouard Balladur. La terza coabitazione (1997-2002) fra il presidente neogollista Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin.

[11] Per un’analisi dei risultati delle sole elezioni presidenziali, v. J. Ziller, Dopo l’elezione del 24 aprile: il presidenzialismo francese in bilico tra governabilità e rappresentatività, 2022, consultabile qui: https://federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=634&content=Dopo%2Bl%E2%80%99elezione%2Bdel%2B24%2Baprile%3A%2Bil%2Bpresidenzialismo%2Bfrancese%2Bin%2Bbilico%2Btra%2Bgovernabilit%C3%A0%2Be%2Brappresentativit%C3%A0&content_auth=%3Cb%3EJacques%2BZiller%3C%2Fb%3E

[12] In un sistema bipolare/bipartitico uno dei due “sfidanti” vince per forza, poiché uno dei due deve necessariamente ottenere la maggioranza assoluta nell’organo legislativo, mentre in un sistema tripolare ben può accadere che nessuno degli “sfidanti” ottenga la maggioranza assoluta, e che siano quindi necessarie alleanze post elezioni per poter governare, esattamente come accade frequentemente nei sistemi parlamentari come il nostro

[13] La proposta è consultabile qui: https://www.camera.it/leg18/126?tab=&leg=18&idDocumento=716&sede=&tipo=

[14] In tal senso, v. R. Bin – G. Pitruzzella, op. cit., p. 152

[15] A tal proposito, si veda l’opinione espressa da Guastavo Zagreblsky su “La Repubblica”, in riferimento ai rischi che tutto ciò potrebbe comportare: https://www.repubblica.it/cultura/2022/08/06/news/gustavo_zagrebelsky_il_presidenzialismo_e_ancora_un_rischio_per_questitalia-360665881/

[16] V. M. Volpi, op. cit., pp. 143-144, 159-160

[17] Definizione Treccani, disponibile qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/sistema-politico/

[18] v. A. Giuliano, Il sistema semipresidenziale, un rimedio all’eccesso di partitocrazia, in Il Politico, 1991, fasc. 2, pp. 207-209

[19] Si pensi alle elezioni del 1996, che hanno dato vita alla XIII legislatura con la vittoria della coalizione di centrosinistra, in un sistema bipolare: nonostante ciò, si sono susseguiti ben quattro governi, per contrasti interni alla coalizione vincente

[20] Per il concetto di “parlamentarismo a prevalenza del Parlamento”, v. R. Bin – G. Pitruzzella, op. cit., p. 154

[21] v. C. De Fiores, Uso e abuso del popolo sovrano nella vicenda costituzionale dell’ultimo decennio, in Democrazia e diritto, 2003, fasc. 3, pp. 34-35

 

Vito Antonio Lovero

Diplomato con lode all’I.I.S.S. Domenico Romanazzi, durante il periodo scolastico svolge un’intensa attività di rappresentanza studentesca, anche come Consigliere della Consulta Provinciale degli Studenti di Bari, durante la quale si dedica principalmente all’organizzazione di attività di promozione della cittadinanza attiva ed è, inoltre, incaricato dell’interlocuzione studentesca con l’amministrazione comunale e metropolitana in materia di edilizia scolastica. Ora Studente di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, collabora con le associazioni studentesche nella promozione di metodologie didattiche peer-to-peer, organizzando incontri volti ad aiutare gli Studenti nell’elaborazione di un metodo di studio, nonché nella preparazione degli esami universitari. Nell’ambito dell’insegnamento di Storia del Diritto italiano ha approfondito il tema dell’integrazione europea, con riferimento anche alla Conferenza sul futuro dell’Europa, redigendo una tesina intitolata “Europa: vola solo chi osa farlo”. Da ultimo, è autore presso Ius in Itinere.

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