giovedì, Dicembre 12, 2024
Criminal & Compliance

Il principio del ne bis in idem in ambito interno ed internazionale: come la sentenza Grande Stevens della Corte Edu ne ha consolidato la portata

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L’articolo 649 del codice di procedura penale italiano enuncia un principio fondamentale dell’ ordinamento: il divieto di un secondo giudizio (dal latino: non due volte per la stessa cosa), secondo il quale “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per  il medesimo fatto” ancorché diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze. Si tratta del principio del ne bis in idem processuale, distinguendolo dal suo omonimo sostanziale relativo al divieto di applicare ingiustificate duplicazioni sanzionatorie, imponendo all’interprete di individuare un’unica norma effettivamente applicabile al caso concreto, rispettando così il divieto.

Il principio si pone, indubbiamente, nell’ottica della  disciplina della difesa dei diritti degli individui, non solo per garantire l’interesse alla certezza del diritto, ma soprattutto al fine di tutelare l’individuo sottoposto a procedimento penale, evitando che lo stesso possa essere illimitatamente soggetto alla potestà punitiva dello Stato.

Non solo l’ordinamento italiano, ma molti Stati europei hanno adottato a livello interno il principio del ne bis in idem modellandolo inizialmente alle proprie esigenze e peculiarità, poi facendo i conti con il diritto sovranazionale.

La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali all’art. 4 Protocollo n. 7 sancisce il principio del ne bis in idem, seppure in termini diversi (e maggiormente estensivi) rispetto agli ordinamenti interni. Una prima differenza si ha avuta in relazione alla nozione di “medesimo fatto ” considerata tanto a livello codicistico quanto a livello comunitario.  In base alla CEDU per “fatto” s’intende il fatto storico in senso naturalistico, la condotta dell’agente e gli altri elementi nella loro concretezza storica;  mentre la giurisprudenza interna lo interpretava (storicamente) come  fattispecie astratta di reato. In ragione della forte incidenza che la giurisprudenza europea riveste su quella interna,  tale differenza ha portato a galla problemi, in special modo, in materia di abusi del mercato e in materia tributaria.

Una battuta d’arresto alla discussione ermeneutica è stata posta dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che con la sentenza Grande Stevens del 4 marzo 2014 ha dichiarato il sistema italiano di repressione degli abusi di mercato in contrasto al principio dell’art. 4 Prot. 7 CEDU. Nel caso di specie, portato alla valutazione dei giudici di Strasburgo, i ricorrenti erano stati prima sanzionati per l’illecito amministrativo nel processo svoltosi dinanzi alla Consob  e successivamente rinviati a giudizio penale e condannati in appello. Secondo la Corte Edu,  il sistema del “doppio binario sanzionatorio” (artt. 184 ss TUF), ovvero della forma cumulativa dell’illecito amministrativo e del reato in capo al medesimo soggetto, costituiva violazione non solo del principio dell’equo processo ex art. 6 CEDU, ma soprattutto del principio del ne bis in idem: i fatti commessi costituivano “medesima condotta” ed in più le sanzioni amministrative irrogate dalla Consob avevano di fatto natura penale.  I giudici, in tale sentenza, fanno riferimento alla nota sentenza Engel del 1976  in base alla quale per reati e per pene non si intendono solo quelle in senso stretto, ma anche tutte le misure sanzionatorie che gli ordinamenti nazionali qualificano in altro modo, come ad esempio illeciti e sanzioni amministrative. Nel caso particolare, infatti, la connotazione penale delle sanzioni irrogate derivava: 1) dalla eccessiva severità delle stesse; 2) dall’importo e dalle sanzioni accessorie; 3) dalle ripercussioni sugli interessi del condannato.

Aderendo a tale impostazione, i problemi emersi in materia di duplicazione sanzionatoria hanno trovato piena soluzione.

Recentemente, con sentenza 200/2016 la Corte Costituzionale si è espressa in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 del c.p.p. nell’ambito del processo Eternit bis. In relazione al significato da dare all’espressione “medesimo fatto”, la Consulta ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale dell’articolo in questione nella parte in cui limita l’applicabilità del principio del ne bis in idem  all’esistenza del medesimo fatto giuridico, invece che all’esistenza del medesimo fatto storico. In tal modo, in rispetto all’articolo 117 della costituzione,  la Corte Costituzionale si è allineata alla Corte Europea. Ciò in quanto la CEDU e i suoi protocolli sono norme interposte e pertanto, viene adita la Corte Costituzionale in caso di declaratoria di incostituzionalità della la norma interna in contrasto alla norma convenzionale (art. 649 c.p.p. e art 4 Prot. 7 CEDU) , sempre che il giudice non interpreti la prima in modo conforme e al dettato della seconda.

Prima della sentenza del 2016, il diritto vivente italiano sosteneva la possibilità di celebrare un nuovo giudizio nei confronti dello stesso imputato nel caso in cui le norme incriminatrici fossero diverse e suscettibili di concorso formale (allorquando, con un’unica azione o omissione, un soggetto commette più violazioni della legge penale). Conseguentemente, in netto contrasto con la precedente tendenza,  grazie alla pronuncia esemplare della Corte Edu,  si dà importanza al contesto spazio- temporale di riferimento e non alla sola qualificazione giuridica del fatto attribuita dal diritto interno.

La sentenza Grande Stevens, pertanto, segna un paletto fondamentale in tema di rispetto dei diritti umani: la portata del principio del ne bis in idem come diritto fondamentale del cittadino europeo è estesa oltre i limitati confini nazionali, dispiegando i suoi effetti nel territorio di tutti gli Stati europei.

 

[1] Corte Europea dei diritti dell’uomo, ricorso n. 18640/10, 4 marzo 2014

[2] Corte Costituzionale, sentenza 200/2016

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