lunedì, Ottobre 7, 2024
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Successioni: l’interesse a impugnare il testamento

A norma dell’art. 457 cod. civ. l’ordinamento ammette due tipi di successione: quella testamentaria e quella legittima. La prima è regolata da un testamento mentre la seconda è disciplinata dalla legge perché manca l’atto di ultima volontà o perché pur esistendo dispone solo di alcuni dei beni ereditabili. I due tipi di successione appaiono dunque tra loro graduati sicché le norme in materia di successione legittima trovano applicazione solo in via residuale.

Invero, le norme in materia di successione legittima possono trovare applicazione anche in presenza di un testamento che però risulta essere viziato e quindi non idoneo a disciplinare validamente la successione. Dinnanzi all’incertezza ingenerata da un testamento viziato il legislatore offre specifici rimedi. È infatti previsto che la disposizione testamentaria può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l’effetto di errore, violenza o di dolo (art. 624 cod. civ). Epperò, l’atto di ultima volontà potrebbe essere viziato anche per ulteriori e diversi motivi. Il testamento è nullo quando manca l’autografia o la sottoscrizione nel caso di testamento olografo, ovvero manca la redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione dell’uno o dell’altro, nel caso di testamento per atto di notaio. Per ogni altro difetto di forma il testamento può essere annullato su istanza di chiunque vi ha interesse (art. 606 cod. civ.).

Il legislatore, dunque, per il tramite delle succitate disposizioni, ha evidentemente inteso garantire regolarità e certezza alla successione nei rapporti del de cuius, riconoscendo il potere a “chiunque ne abbia interesse” di adire l’autorità giudiziaria al fine di vedere dichiarato che la disposizione di ultima volontà è affetta da uno dei vizi specificamente previsti dalla legge. Le relative azioni si prescrivono in cinque anni; rispettivamente dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell’errore o dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Da una prima lettura della norma parrebbe realmente che “chiunque” possa proporre impugnazione avverso l’atto di ultima volontà. E’ doveroso ricorrere, al fine di meglio comprendere la legittimazione all’esercizio dell’impugnazione de qua, al concetto di interesse ad agire che deve evidentemente sussistere affinché il giudice adito possa pronunziarsi, anche nel caso che qui ci interessa. Ed infatti per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse (art. 100 cod. proc. civ.); intendendosi per interesse la concreta utilità che non sarebbe conseguibile se non per il tramite dell’intervento dell’autorità giudiziaria [1].

Sulla scorta di quanto detto la Giurisprudenza di merito ha avuto modo di affermare puntualmente che l’interesse ad impugnare il testamento deve essere diretto ed attuale, e non potenziale e futuro, in quanto chi agisce deve ottenere un vantaggio immediato dalla pronuncia giudiziaria d’inefficacia dell’atto, in virtù del pregiudizio che il documento irregolare possa arrecare al soggetto procedente nell’ambito della successione ereditaria [2].

Si rendono, a questo punto, dopo le suindicate specificazioni di carattere generale, necessarie precisazioni proprie del diritto delle successioni. Dottrina è solita distinguere il chiamato all’eredità in genere (c.d. vocato) dal chiamato in primo ordine (c.d. delato). La “vocazione” indica semplicemente l’aspetto soggettivo del fenomeno successorio, essendo vocati tutti coloro i quali sono astrattamente idonei a succedere al de cuius; in questa categoria rientrano, come detto, sia i primi chiamati che i chiamati ulteriori. Contrariamente, per “delazione” si intende l’elemento oggettivo del fenomeno successorio, e si indica quindi la concreta offerta dell’eredità ad uno dei vocati, il quale può decidere di accettare o rifiutare. In altri termini, il delato è il soggetto al quale l’ordinamento (per legge o in forza del testamento) rivolge l’offerta concreta di accettare l’eredità, e quindi solo i delati hanno facoltà di accettarla.

È evidente che l’eredità verrà offerta dapprima a quel vocato cui la legge riconosce priorità successoria[3]. Le citate premesse di carattere dottrinale non sono prive di effetti. Infatti l’interesse ad impugnare il testamento è da riconoscere solo a chi, conseguita l’invalidante pronuncia giudiziaria, verrebbe a trovarsi nella posizione utile di poter succedere nei rapporti del de cuius. Venendo a mancare la successione testamentaria, infatti, si farebbe immediatamente luogo alla successione legittima (art. 457 c.c.) che gradua meticolosamente tra loro i successibili. È dunque evidente l’indefettibilità dell’interesse diretto ed attuale ad ottenere un vantaggio dall’impugnazione dell’atto di ultima volontà. A nulla varrebbe infatti accordare detta tutela a chi si vedrebbe preceduto da eredi di grado poziore. Evidentemente risulterebbe connotata da difetto d’interesse l’impugnazione proposta dal parente prossimo del de cuius se questi ha lasciato in vita prole, genitori, ascendenti, fratelli, sorelle o loro discendenti (art. 572 cod. civ.).

La giurisprudenza, infatti, graniticamente ritiene che la prova della qualità di erede richiede la prova in positivo del rapporto di parentela rilevante sul piano successorio nonché la prova in negativo dell’inesistenza di eredi di grado poziore. Detto altrimenti, chi intende adire l’autorità giudiziaria al fine di vedere dichiarata l’invalidità dell’atto di ultima volontà, deve assolvere l’onere probatorio dando prova dell’inesistenza di “eredi aventi precedenza” nel fenomeno successorio. È proprio sulla prova in negativo che si registra un contrasto tra la Giurisprudenza di merito e il Giudice di legittimità.

I fatti di causa, da cui origina la pronuncia di legittimità in commento, vedono il Giudice d’Appello marcare il solco già tracciato dal Giudice di prime cure. Nella sentenza impugnata, infatti, si legge: «come esattamente rilevato dal Tribunale, sebbene l’attrice abbia ricostruito e documentato il legame di parentela che la unisce al defunto, dimostrando altresì l’assenza in vita di ulteriori parenti di quest’ultimo in linea materna, tale onere probatorio non risulta adeguatamente soddisfatto con riferimento agli eventuali parenti del lato paterno». Il Giudice d’Appello, dunque, riconfermando la sentenza del Giudice di prime cure, ha rilevato la carenza di interesse ad agire per mancato soddisfacimento dell’onere della prova in negativo, non essendo sufficiente la prova in positivo della qualità di successibile ex lege del testatore; occorrendo una seconda prova negativa,  certa e documentale, della mancanza di successibili di grado poziore. L’omessa prova in negativo (certa e documentale), dunque, integrerebbe secondo la giurisprudenza di merito una mancanza di interesse, concreto e attuale, all’impugnazione del testamento da parte del successibile.

Avverso la pronuncia d’Appello veniva proposto ricorso per Cassazione. La Corte Suprema di Cassazione, in riforma dell’orientamento di merito sopra citato, ha infatti affermato che “l’interesse del successibile ex lege a impugnare il testamento non può essere negato in forza della considerazione, teorica e astratta, che potrebbero esistere altri successibili. L’interesse del successibile potrebbe essere disconosciuto solo in presenza di un chiamato “noto” che lo preceda nell’ordine successorio”[4]Gli Ermellini, discostandosi dalla tesi precedente, hanno si confermato l’orientamento secondo cui la prova della qualità di erede, da parte di colui che si affermi successibile ex lege ai sensi dell’ art. 572 cod. civ., implichi sia la prova positiva del rapporto di parentela rilevante sul piano successorio, ossia il grado di parentela effettivamente esistente tra colui che si afferma successibile e il de cuius, sia la prova negativa dell’inesistenza di chiamati di grado poziore, ma con una significativa precisazione. La prova di tipo negativo, può, infatti, essere data anche attraverso presunzioni dalle quali sia desumibile l’inesistenza di chiamati in grado poziore, essendo sufficiente, dunque, la probabilità dell’inesistenza.

I Giudici della Suprema Corte, dunque, hanno ristretto l’ambito operativo della carenza di interesse ad agire non essendo necessario, al fine dell’impugnazione dell’atto di ultima volontà, fornire prova certa dell’inesistenza di successibili di grado pozione. Carente, dunque, sarà l’interesse solo nel caso in cui il proponente l’azione non dia prova, dell’inesistenza di successibili di grado pozione, in termini di evidente probabilità, ancorché non anche di oggettiva certezza. A ciò s’aggiunga il consolidato principio giurisprudenziale in forza del quale la prova riguardante un fatto negativo, può essere data anche per presunzioni dalle quali il fatto negativo sia desumibile [5]. La prova per presunzioni dell’inesistenza di successibili di grado poziore, alla luce dell’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, è oggi idonea a soddisfare la prova in negativo richiesta per la sussistenza dell’interesse ad agire e dunque per scongiurare una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione dell’atto di ultima volontà.

[1] La dottrina prevalente definisce l’interesse ad agire quale interesse al conseguimento di un’utilità o di un vantaggio non ottenibile senza l’intervento del giudice. L’interesse deve essere personale, attuale e concreto. Esso assume la condizione di condizione dell’azione essendo generalmente bastevole la sua sussistenza al momento della pronuncia giudiziaria. Tuttavia nelle azioni di accertamento, che tendono ad eliminare una situazione di incertezza pregiudizievole, acquista il significato di vero e proprio limite di ammissibilità

[2] Trib. Torino, Sent. 4 Novembre 2005.

[3] G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, Giuffrè, p. 100.

[4] Cass. Civ., Sez. VI, Ord. 9 novembre 2020, n. 25077.

[5] Ex multis Cass. n. 14854/2013; n. 384/2007; n. 5427/2002.

Piermassimo Arcangelo

Piermassimo Arcangelo è nato a Cariati (CS). Dopo aver conseguito la maturità scientifica si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi Magna Graecia di Catanzaro dove si laurea con voti 110 con lode e menzione speciale alla carriera. Attualmente è dottorando di ricerca in diritto commerciale presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro. Amante del diritto in tutte le sue declinazioni, si occupa prevalentemente di diritto civile, commerciale, diritto di famiglia e delle successioni.   Email: arcangelopiermassimo@gmail.com

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