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Detenuti al 41-bis e sottoposizione al visto di censura della corrispondenza col difensore: Corte Costituzionale, sentenza 24 gennaio 2022, n. 18

A cura di Giuseppe Caldarelli

 

  1. Introduzione

La Corte Costituzionale, con sentenza del 24 gennaio 2022, n. 18 – accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione, I Sezione Penale, con ordinanza 21 maggio 2021, n. 20338[1] – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 24 della Costituzione, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e) della legge 26 luglio 1975, n. 54 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione al visto di censura la corrispondenza intrattenuta col difensore.

Presso il giudice a quo pende infatti il giudizio che vede come ricorrente un imputato il quale – condannato in primo grado alla pena di venticinque anni di reclusione poiché ritenuto esponente di vertice di un’associazione criminale di stampo mafioso e attualmente detenuto in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen. – si era visto confermare, da parte del Tribunale di Locri, con ordinanza del 9 luglio 2020, il trattenimento di un telegramma indirizzato al proprio difensore di fiducia (disposto con decreto del 12 maggio 2020 dal Presidente del Tribunale), sul fondamento della sussistenza di un «pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, connesso all’ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza»[2]. Ciò non sarebbe stato spiegabile sulla base del basso grado di istruzione dell’autore, il quale aveva redatto il reclamo personalmente, mostrando di saper esporre in modo chiaro e lineare i motivi. La Suprema Corte, dal canto suo, ancor prima di entrare nel merito dei motivi di ricorso lamentati dal ricorrente (vizio di motivazione e violazione di legge), aveva dunque dubitato della compatibilità costituzionale della disposizione censurata – in particolare, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 Cedu – e, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione, aveva sospeso il procedimento in attesa che la Corte Costituzionale si fosse pronunciata su quanto rimesso al suo vaglio. Difatti, il dubbio prospettato, qualora si fosse rivelato fondato – come poi avvenuto – avrebbe fatto risultare a monte viziata l’operazione di controllo di legittimità del provvedimento impugnato.

 

  1. Un precedente determinante

Senza ombra di dubbio, un precedente cruciale rispetto alla decisione assunta dalla Consulta è rappresentato dalla sentenza del 20 giugno 2013, n. 143, della stessa Corte Costituzionale, con la quale ha dichiarato l’illegittimità della disposizione di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), ord. pen., così come modificata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui poneva delle limitazioni di tipo quantitativo alla possibilità di svolgere colloqui con il difensore: un colloquio di un’ora o una telefonata di dieci minuti fino a un massimo di tre volte alla settimana, alla stregua di quanto previsto per i familiari del detenuto. Più precisamente, già in quella sede, è possibile rintracciare le due direttrici fondamentali lungo le quali si articola la motivazione resa nella sentenza in esame, che le ha riprese e confermate, mutatis mutandis, rispetto alla disciplina della corrispondenza.

In particolare, da un lato, si rilevava la irragionevolezza dell’equiparazione dei difensori ai familiari del detenuto, stante la loro appartenenza ad un ordine professionale ed essendo dunque tenuti al rispetto di un codice deontologico, oltre che sottoposti alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza. Nonostante appaia plausibile la realizzazione di un illecito canale di comunicazione con l’organizzazione criminale per il tramite dall’avvocato, non è possibile assumere una tale ipotesi come massima d’esperienza e tradurla sul piano normativo.

Dall’altro lato, invece, si notava come, premessa l’esistenza di un nucleo fondamentale del diritto di difesa, costituente un limite ad eventuali restringimenti nell’ottica del bilanciamento con altri interessi fondamentali (nel caso di specie le esigenze di sicurezza pubblica rispetto all’elevato grado di pericolosità dei soggetti interessati dalla norma), vi fosse un conflitto col principio per cui, in tali operazioni di bilanciamento, non vi può essere una diminuzione di tutela di un diritto fondamentale se a questa non fa riscontro un incremento di tutela di altro interesse di pari rango. Infatti, si era rilevato che «quando pure l’eventualità temuta si materializzi, le restrizioni oggetto di scrutinio, non appaiono comunque in grado di neutralizzarne o di comprimerne in modo apprezzabile gli effetti. Posto, infatti, che i colloqui con i difensori – diversamente da quelli con i familiari e conviventi o con terze persone – restano sottratti all’ascolto e alla videoregistrazione, i limiti di cadenza e di durata normativamente stabiliti sono suscettibili, bensì, di penalizzare la difesa, ma non valgono ad impedire, nemmeno parzialmente, il temuto passaggio di direttive e di informazioni tra il carcere e l’esterno, né a circoscrivere in modo realmente significativo la quantità e la natura dei messaggi che si paventano scambiabili, per il tramite dei difensori, nell’ambito dei sodalizi criminosi»[3]. In sostanza, rispetto a quest’ultimo profilo, stante la riservatezza di cui godono i colloqui col difensore, la compressione del diritto di difesa per mezzo dei suddetti limiti quantitativi al loro espletamento, non importando alcun beneficio sul piano opposto delle esigenze di sicurezza, risultava essere non soltanto irragionevole, ma anche inutile.

 

  1. La decisione

Venendo alla sentenza del 24 gennaio 2022, n. 18, della Corte Costituzionale, questa procede in via preliminare a una ricostruzione del quadro normativo, in prospettiva anche diacronica, giungendo alla conclusione che l’art. 41-bis ord. pen. debba configurarsi come lex specialis sia rispetto all’art. 103, comma 6, cod. proc. pen.[4], sia rispetto all’art. 18, comma 2, ord. pen., così come prospettato dal giudice a quo nell’ordinanza di remissione. Si legge nella sentenza: «in difetto di un orientamento chiaro e consolidato della giurisprudenza di legittimità in senso contrario, idoneo ad assurgere a diritto vivente, la soluzione interpretativa assunta alla base dell’ordinanza di rimessione appare non solo plausibile, ma anche – a ben guardare – come la più conforme al dato letterale della disposizione censurata»[5]. Difatti, mentre l’art. 18-ter – nel disciplinare le tipologie, i presupposti, i tempi massimi di durata, l’autorità competente e i meccanismi di tutela giurisdizionale delle limitazioni al diritto alla corrispondenza epistolare e telegrafica – si riferisce in maniera generica a tutti i detenuti, l’art. 41-bis fa riferimento specifico ai detenuti e internati sottoposti a quel particolare regime previsto nei commi 2 e ss. dello stesso articolo. In particolare, i due differiscono non tanto per le modalità di censura rispettivamente predisposte[6], quanto piuttosto per le eccezioni che prevedono rispetto alle stesse: l’art. 41-bis, contrariamente all’art. 18-ter, non include nell’ambito di tali eccezioni la corrispondenza intrattenuta con i soggetti indicati dal comma 5 dell’art. 103 cod. proc. pen.[7] e, dunque, per ciò che qui interessa, con i difensori.

Con riguardo al diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, la Consulta procede a una disamina delle varie pronunce, anche a livello sovranazionale, che lo riguardano e lo definisce, ancora una volta, un «principio supremo dell’ordinamento costituzionale»[8] dal quale discende il diritto ad esso strumentale di conferire col proprio difensore al fine di predisporre le adeguate strategie difensive, di conoscere i propri diritti e le modalità per tutelarli. Invero, il diritto di difesa «assume una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario», dal momento che «in quanto fruenti soltanto di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive»[9]. Ad ogni modo, come in parte già notato, la costante giurisprudenza della Corte non considera il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni col proprio difensore un diritto assoluto, ma ritiene che possa essere soggetto a bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti, purché ciò avvenga secondo ragionevolezza, proporzionalità e a condizione che non ne risulti pregiudicato il c.d. nucleo essenziale, il quale coincide essenzialmente con la sua effettività.

Partendo da tali principi, la Corte riprende e mutua rispetto al diritto di corrispondenza le motivazioni che la sentenza n. 143/2013 ha posto alla base della dichiarazione di illegittimità dei limiti che, prima del suo intervento, erano previsti per la disciplina dei colloqui. Più precisamente, anche qui, come si è già accennato, si seguono le suddette due direttrici fondamentali.

In merito alla prima, la Consulta ribadisce la insostenibilità di una traduzione sul piano normativo di quella che, di fatto, attraverso la non inclusione del difensore nel novero dei soggetti la cui corrispondenza col detenuto è esclusa dalla sottoposizione al visto di censura, costituisce una presunzione di collusione del difensore col sodalizio criminale. Ciò fa senz’altro sì che si getti «una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso»[10]. La loro appartenenza ad un ordine professionale, il loro essere tenuti al rispetto di un codice deontologico e il fatto che siano sottoposti alla vigilanza dell’ordine di appartenenza impediscono che una tale categoria possa essere equiparata, anche con riguardo alla disciplina delle limitazioni alla corrispondenza, a quella degli altri soggetti che intrattengono rapporti col detenuto.

Per quanto riguarda la seconda, confermando le considerazioni svolte rispetto al diritto di difesa e, in particolare, circa il principio secondo il quale, nelle operazioni di bilanciamento tra diversi interessi costituzionalmente garantiti, non possa darsi luogo a un decremento di tutela dell’uno senza che a ciò corrisponda un incremento di tutela dell’altro, la Corte Costituzionale prende atto della oggettiva infruttuosità del tentativo di impedire un illecito canale di comunicazione con l’organizzazione criminale attraverso i limiti previsti dalla norma censurata. Infatti, considerato che il contatto col sodalizio criminoso possa certamente avvenire anche per il tramite dei difensori, l’estensione del visto di censura alle comunicazioni con questi è astrattamente una misura funzionale a impedire che ciò si verifichi. Tuttavia, se si confronta la norma censurata con le altre misure previste dal comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen., «la disposizione in esame si appalesa del tutto inidonea a tale scopo, dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo»[11].

Peraltro, in conclusione, nell’ottica di comparazione – qui seguita – con la sentenza n. 143 del 2013, sembra opportuno riportare la breve riflessione svolta dalla Consulta rispetto alla maggiore gravosità dei limiti predisposti per il diritto alla corrispondenza rispetto a quelli ch’erano previsti per il diritto ai colloqui: la previsione di cui alla lett. e) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, «incide sul diritto fondamentale del detenuto o internato in misura ancor più gravosa rispetto a quella giudicata costituzionalmente illegittima dalla menzionata sentenza n. 143 del 2013, non ponendo meri limiti quantitativi, ma potendo addirittura impedire che talune comunicazioni giungano al proprio destinatario»[12]. La Corte Costituzionale è così giunta a dichiarare costituzionalmente illegittima la disposizione censurata per contrasto con l’art. 24 Cost., ritenendo assorbite le ulteriori censure.

 

[1] In questa rivista, si veda G. Caldarelli, “Cass. Pen., Sez. I, Ordinanza 21 maggio 2021, n. 20338”.

[2] Tribunale di Locri, ordinanza del 9 luglio 2020.

[3]  Corte Costituzionale, sentenza n. 143, 20 giugno 2013, punto 7 del “considerato in diritto”.

[4] L’art 103, comma 6, cod. proc. pen. vieta espressamente il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra gli imputati e i propri difensori, salvo soltanto il caso in cui l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato, e purché siano osservate le formalità prescritte dal codice di rito con lo scopo di assicurare la riconoscibilità di tale corrispondenza per l’amministrazione penitenziaria.

[5]  Corte Costituzionale, sentenza n. 18, 24 gennaio 2022, punto 2.9 del “considerato in diritto”.

[6] Per costante giurisprudenza della Corte di Cassazione si ritiene che, seppure le suddette norme utilizzino termini diversi tra loro (“visto di controllo” e “visto di censura”), questi corrispondano al medesimo significato. In entrambi i casi l’amministrazione penitenziaria ha la possibilità di procedere, oltre che al controllo e alla lettura del contenuto della missiva, anche al blocco dell’inoltro della stessa al destinatario.

[7] I soggetti indicati dal comma 5 dell’art. 103 cod. proc. pen. sono il difensore, i consulenti tecnici, i loro ausiliari e gli investigatori privati autorizzati incaricati in relazione al procedimento.

[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 18, 24 gennaio 2022, punto 4.1 del “considerato in diritto”.

[9] Ibidem. Invero, in questo passaggio la Consulta cita la sentenza n. 143, 20 giugno 2013.

[10] Ibidem, punto 4.4.2 del “considerato in diritto”.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

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