martedì, Ottobre 8, 2024
Criminal & Compliance

L’emergenza che diviene normalità: Covid-19 e reati di falso un anno dopo

1. La situazione un anno dopo.

È ormai trascorso un anno da quando la prima ondata di Covid-19 ha colpito il nostro Paese, le nostre abitudini e in generale, la nostra esistenza nella sua globalità.

A distanza di tempo, in quello che sembra una nuova edizione del capolavoro prodotta dall’intelletto e dalla pena di Dumas, Vent’anni dopo, lo stato della pandemia non accenna ancora a diminuire, comportando, di conseguenza, l’adozione di misure restrittive volte ad arginarne la diffusione. Fondamentalmente, tranne con qualche lieve differenza, sono state riadottate le medesime misure delle c.d. fase 1; la suddivisione per colori, le restrizioni circa la possibilità di movimento e l’uso dell’autocertificazione.

Mediante tale atto, divenuto oramai essenziale d’uso comune, ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 ciascun individuo è chiamato a dichiarare: le proprie generalità (tra cui, la propria utenza telefonica); di essere consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.); di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus Covid-19; di essersi spostato dal luogo A con destinazione B; di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio adottate; di essere a conoscenza delle limitazioni ulteriori adottate dal Presidente della propria Regione di appartenenza; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dall’art. 4 D.L. 25 marzo 2020, n. 19 e dall’art. 2 D.L. 16 maggio 2020, n. 33.

La prima e diretta conseguenza, almeno da un punto di vista giuridico, è stata l’aumento delle pronunce da parte dei tribunali di merito circa i c.d. reati di falso.

 

2. Brevi considerazione sui c.d. reati di falso.

Al fine di evidenziare il perimetro normativo, nonché gli scenari che sottendo all’autocertificazione e alle pronunce rese recentemente sul tema, appare doveroso una breve disamina delle disposizioni del codice penale che si occupano dei c.d. reati di falso. Il nostro ordinamento prevede e punisce, all’art. 483 c.p., la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico. Tale delitto si configura quando una norma giuridica obbliga il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente[1]. Proprio per tale ragione deve escludersi che una scrittura privata o un altro documento originariamente non costituente atto pubblico possa essere considerato tale in virtù del solo suo collegamento funzionale ad un atto amministrativo, per effetto dell’inserimento di esso nella relativa pratica dell’iter consequenziale occorrente per il provvedimento finale. Il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, quindi, riguarda solo attestazioni del privato che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare. Tale ipotesi criminosa presuppone un collegamento tra il privato autore della falsificazione e il pubblico ufficiale il quale abbia raccolto le mendaci attestazioni: il delitto di falsità ideologica in atto pubblico commesso dal privato può dirsi sussistente quando l’atto in cui è stata trasfusa la sua dichiarazione sia destinato a provare la verità dei fatti narrati. Sul punto si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità[2] la quale ha stabilito che: “In tema di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, è esclusa la configurabilità del dolo generico quando la dichiarazione ritenuta non veritiera sia contenuta in un modulo prestampato ed attesti soltanto la rispondenza di una data situazione di fatto ad una normativa genericamente indicata senza, però, la precisa indicazione delle condizioni normative e delle circostanze fattuali attestate, in quanto per l’integrazione del delitto è necessaria la coscienza e volontà di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non essendo, invece, sufficiente la mera colposa omissione di indagine sul significato delle indicazioni contenute nel modulo”.

Per quanto attiene all’elemento soggettivo è richiesto il mero dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere il fatto nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero. Si tratta di un reato di pura condotta, sicché il perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto.

Una parte della dottrina[3] ha specificato che l’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extra-penale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità. È necessario, dunque, che esista una norma giuridica che imponga l’obbligo per il privato a dire il vero, ma non è necessario che tale obbligo sia esplicito. L’obbligo di verità, infatti, può trovare anche un aggancio implicito e non necessariamente esplicito in una norma di legge[4].

La Suprema Corte[5] ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 483 c.p. in assenza di una norma che esplicitasse il dovere di verità in capo al privato in sede di denuncia di smarrimento, ma rinvenendo detto dovere nella previsione normativa di un obbligo di denuncia e nel fatto che detta denuncia funge da presupposto per l’avvio dell’iter amministrativo volto alla formazione e al rilascio del relativo duplicato in favore del denunziante, affermando che “con la dichiarazione di smarrimento si attesta, nell’atto pubblico, il fatto dello smarrimento, che è condizione necessaria per l’ottenimento del duplicato della carta di identità, sicché è consequenziale l’obbligo di dire la verità al pubblico ufficiale e l’atto pubblico, in cui la dichiarazione è trasfusa, “certifica” l’evento denunciato”. Orbene da un’attenta analisi del tenore letterale della disposizione di cui all’art. 483 c.p. nonché della recente giurisprudenza di legittimità, non si può non ritenere che la falsa dichiarazione in sede di autodichiarazione in emergenza Covid-19 possa integrare il reato di cui all’art 483 c.p.. L’attestazione circa la giustificazione che può derogare all’obbligo di restare a casa non può rientrare nella previsione di cui all’art. 46 D.P.R. 445/00, che consente di comprovare con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali sarebbero, in assenza di autocertificazione, rinvenibili in pubblici registri o comunque sarebbero già di dominio della pubblica amministrazione. Tale atto parrebbe rientrare, invece, nell’ambito dell’art. 47 D.P.R. 445/00, che ammette di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto, tra gli altri, “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato”; oltre che “nei rapporti con la pubblica amministrazione tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 possono essere comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.

L’art. 47 conferisce, dunque, il potere di “comprovare” i fatti di cui si è a conoscenza con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; così facendo l’ordinamento attribuisce efficacia probatoria alla dichiarazione. Il successivo art. 76, per parte sua, assume la generale funzione di obbligare al vero nell’elaborazione dell’autodichiarazione, stabilendo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”, in questo modo richiamando il precetto di cui all’art. 483 c.p..

Tuttavia, è bene che l’interprete effettui una doverosa distinzione a seconda dei casi concreti. Difatti non tutte le falsità nell’autodichiarazione sono idonee ad integrare il reato di cui all’art. 483 c.p.. Se è vero che l’oggetto del falso può essere unicamente un fatto vero, allora potranno essere attestati solo fatti già compiuti. Qualora sia falsa tale attestazione il reato in parola sarà configurabile; si potrà perseguire, se falsa, l’attestazione di un fatto che si è già realizzato nella realtà fenomenica. Diverso è dichiarare l’intenzione di compiere un fatto non ancora realizzato nella sua completezza.

La dichiarazione, in questi casi ultimi, ha per oggetto una mera intenzione e conseguentemente rientra in quegli arresti giurisprudenziali che non ammettono di ritenere configurata la fattispecie delittuosa, in quanto a essere attestato è un mero intento, un proposito che, in quanto tale sfugge all’oggetto della falsità penalmente rilevante. Insomma sarà necessario distinguere le dichiarazioni mendaci rese in ordine agli elementi identificativi rilevanti ai sensi dell’art. 495 c.p., dalle dichiarazioni rese con riferimento a fatti già compiuti, rilevanti con riguardo all’art. 483 c.p.. ed infine alle dichiarazioni mendaci riguardanti le intenzioni (e, quindi, tutte quelle che concernono le “destinazioni” dei propri spostamenti) che, in quanto future ed incompiute, non possono rappresentare “fatti” su cui fondare la punizione per il reato di falso in parola.

Invero si è sostenuto che è proprio l’effetto giuridico connesso alla dichiarazione a fondare il dovere di attestare il vero[6]. Tuttavia, attribuire rilevanza penale alla falsa dichiarazione significherebbe introdurre un obbligo di autodenuncia in capo al privato in relazione all’illecito di violazione delle prescrizioni in violazione del principio sintetizzabile nel brocardo nemo tenetur se detegere[7].

Orbene, l’interprete dovrà attentamente verificare, alla luce della lettura congiunta e coordinata delle due sezioni e soppesando sapientemente le parole utilizzate, se il privato abbia dichiarato un fatto o piuttosto un’intenzione: nel primo caso, il dichiarante potrà essere tacciato di falsità; nel secondo la condotta pare sfuggire alle maglie della punibilità, in ossequio alla giurisprudenza su richiamata.

Alcuni autori[8] affermano poi che risulterà complessa la strada verso il riconoscimento della punibilità di chi, sprovvisto dell’autodichiarazione ed interrogato dal pubblico ufficiale sui motivi della propria presenza in strada, renda dichiarazioni false che il p.u. recepisca a verbale.

Difatti i giudici di legittimità[9] hanno più volte chiarito che il reato di cui all’art. 483 c.p. non si configura quando in un controllo stradale il privato renda dichiarazioni mendaci al p.u. “posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati”.

Ecco dunque che il cittadino, che deve essere sempre informato sulle modifiche legislative introdotte nonché su quelle vigenti, può incorrere in sanzioni penali particolarmente incisive qualora – con coscienza e volontà – decida di rendere dichiarazioni false e mendaci in modo da poter liberamente trasgredire ai divieti e alle limitazioni della libertà di movimento costituzionalmente tutelata.

Sussistono, invero, ad una attenta ed accurata analisi in questo caotico e intricato labirinto di norme e regolamenti, delle problematiche inerenti al principio di tipicità, che è posto alla base e fondamento delle norme penali. Non si può non negare infatti che il moltiplicarsi endemico di norme abbia generato una certa confusione nei soggetti destinatari, a volte non avvezzi al confronto con il mondo legislativo e con disposizioni, a volte, frutto dell’arbitrio del Leviatano. In tal senso anche la giurisprudenza di legittimità[10] si è recentemente espressa nel ritenere che non configuri il falso ideologico la situazione nella quale la parziale falsità dell’autocertificazione non ha natura dolosa, ma è dipesa dalle difficoltà interpretative della normativa.

 

3. Il solco viene delineato: una nuova pronuncia del Tribunale di Milano.

Come evidenziato in precedenza, a seguito dei controlli da parte delle Forze dell’ordine e della conseguente attività delle Procure della Repubblica sono aumentati i procedimenti per i reati di falso. Tuttavia, seppure non si è ancora giunti ad una pronuncia da parte della Corte di Cassazione, l’orientamento delle corti di merito è quello di orientarsi verso un completo proscioglimento dell’imputato.

Sono noti i casi di Milano[11] e Reggio Emilia[12] in cui il giudicante ha ritenuto di prosciogliere gli imputati dal reato ascritto, seppur adducendo motivazioni differenti.

Nel caso sottoposto al giudice meneghino, il Pubblico Ministero titolare aveva chiesto l’emissione del decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato per il reato di cui all’art. 76 D.P.R. 445/20 in relazione all’art. 483 c.p. in quanto lo stesso avrebbe dichiarato il falso alle Forze dell’ordine in relazione al motivo e all’orario dei suoi spostamenti. Il giudicante ha tuttavia escluso che tale dichiarazione mendace integri il reato di cui all’art. 483 c.p.. Il “fatto” è in re ipsariferibile a qualcosa che si è già manifestato nella realtà esteriore e quindi che è suscettibile di valutazione e accertamento, mentre l’intenzione necessita di una valutazione ex post. Da un punto di vista prettamente teleologico la ratio della norma è quella di incriminare la condotta del privato che rende una falsa dichiarazione al p.u. e che quindi inficia l’attitudine probatoria della dichiarazione. Conseguentemente si deve ritenere che qualora il privato renda una falsa dichiarazione con riferimento ad una situazione passata, già concretamente venuta ad esistenza, risulterà integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.; al contrario la mera attestazione di un’intenzione – sia essa di recarsi in un luogo ovvero effettuare una determinata attività – non rientra nella definizione di fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità[13].

Il caso sottoposto al Tribunale di Reggio Emilia invece concerneva due imputati erano stati fermati dalle Forze dell’ordine durante il primo periodo di lockdown (13 marzo 2020) ed avevano compilato un’autocertificazione che, da controlli, era risultata non veritiera; conseguentemente il Pubblico Ministero aveva chiesto l’emissione del decreto penale di condanna, ravvisando la violazione dell’art. 483 c.p.. Tuttavia, il Giudice per le Indagini Preliminari di Reggio Emilia, ha dichiarato non doversi procedere, ex artt. 129, 530e 459, c. 3, c.p.p., nei confronti degli imputati. La sentenza evidenzia come non si configura un falso ideologico in atto pubblico per effetto della trasgressione di un DPCM che è intervenuto a istituire un obbligo di permanenza domiciliare che, per giurisprudenza consolidata anche della Corte costituzionale[14], rappresenta una limitazione della libertà personale la quale può essere disposta unicamente dall’autorità giudiziaria o comunque da quest’ultima valutata. Sul punto infatti il dettato costituzionale, all’art. 13 Cost., afferma che la libertà personale può essere limitata solamente per atto motivato dell’autorità giudiziaria. Orbene in quest’ottica si evidenzia che, nel sistema delle fonti che contraddistingue il nostro sistema normativo, tale libertà non possa essere compressa o limitata da una fonte di rango secondario come il DPCM. Conseguentemente per il GIP di Reggio Emilia, il DPCM è illegittimo per violazione dell’art. 13 Cost. e la redazione dell’autocertificazione appresenta una: “costrizione incompatibile con lo stato di diritto del nostro paese”. Per tale ragione la falsità del documento non ha i connotati dell’antigiuridicità e non deve essere punita sul piano penale, configurandosi nel caso de quo un falso inutile che incide su un documento irrilevante. Da un mero punto di vista applicativo poi, trattandosi di un mero atto amministrativo, il giudicante ritiene che non è necessario un rinvio della questione alla Consulta affinché venga dichiarata l’illegittimità, potendo ben essere disapplicato dal singolo magistrato ai sensi dell’art.5, L. 20 marzo 1885, n. 2248 all. E[15].

Orbene nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Milano[16] l’imputato era stato fermato dagli agenti della Polfer e sottoposto aa controllo ai sensi delle disposizioni per la prevenzione della diffusione del Covid-19.

In particolare il predetto affermava falsamente un fatto nell’autocertificazione, dichiarando di lavorare a Milano e di fare rientro presso il proprio domicilio, circostanza che – a seguito di verifica – non era risultata corrispondente al vero. Oltre ai documenti prodotti dalla difesa, che sono stati ritenuti comunque idonei a minare la ricostruzione effettuata dalla pubblica accusa, il giudicante ritiene non configurabile il reato di cui all’art. 483 c.p.. Effettuando un’interpretazione letterale della norma infatti lo stesso ritiene che: “l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. […] Escluso che la norma in esame preveda un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato renda al pubblico ufficiale, la destinazione alla prova è stata individuata nella specifica rilevanza giuridica che abbia la documentazione pubblica dell’attestazione del privato. Per pacifica giurisprudenza di legittimità, le false dichiarazioni del privato integrano infatti il delitto di falso in atto pubblico quando sono destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono nonché ad essere trasfuse in un atto pubblico: secondo la Corte, in altri termini, il delitto previsto dall’art. 483 c.p. sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale”.

Risulterebbe inoltre alquanto complesso stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire: “il controllo successivo sulla veridicità di quanto dichiarato dai privati è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione: pertanto, quanto dichiarato dal singolo all’atto della sottoscrizione dell’autodichiarazione potrebbe di fatto restare privo di qualunque conseguenza giuridica; dall’altro, occorrerebbe ipotizzare che l’atto destinato a provare la verità dei fatti auto-dichiarati e certificati dal privato sia il successivo (eventuale) verbale di contestazione di una sanzione amministrativa o l’atto di contestazione di un addebito di natura penale”.

Conclude poi la pronuncia affermando che non sussiste in capo al privato un obbligo di dire o dichiarare il vero in quanto: “un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge e una sua ipotetica configurazione si porrebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio nemo tenetur se detegere, in quanto il privato, scegliendo legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative, verrebbe comunque assoggettato a sanzione penale per le false dichiarazioni rese”.

 

4. Brevi conclusioni.

 Tale pronuncia, affrontando la questione circa la falsità in autocertificazioni – tanto complessa nella sua apparente semplicità – da una diversa prospettiva rispetto alle altre due sentenze pone una nuova prospettiva circa la configurabilità dei reati di falso.

Se infatti la prima pronuncia del Tribunale ambrosiano ha ritenuto non punibile la mera intenzione e la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia ha addirittura prospettato l’illegittimità costituzionale dei DPCM, tale seconda decisione sempre del Tribunale di Milano entra ancora più in profondità della questione ritenendo che non si possa legittimamente obbligare il soggetto privato, sottoposto a controlli, a dire la verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta in quanto, nel nostro ordinamento, non è rinvenibile una disposizione che colleghi determinati effetti ad uno specifico documento nel quale la dichiarazione mendace sia inserita dal pubblico ufficiale.

Il caso contrario graverebbe sul cittadino l’onere, confliggente con il principio del nemo tenetur se detegere, di dire il vero anche con riferimento a fatti che potrebbero avere rilevanza penale e che comporterebbero l’instaurazione, a carico del dichiarante, di un procedimento penale o di una sanzione amministrativa.

Tali sentenze si pongono quindi, come spesso accade, come utile mezzo volto a chiarire – in una difficilmente districatile selva di norme – le condotte che integrano il reato di cui all’art. 483 c.p. e quelle che invece non rilevano dal punto di vista penale, al contempo evidenziando possibili lesioni dei principi costituzionali manifestatesi attraverso l’adozione, in particolare da parte del precedente esecutivo, dei DPCM.

Immagine di Daniel Schuldi su unsplash

[1] R. Bartoli, in M. Pelissero – R. Bartoli (a cura di), Reati contro la fede pubblica, Torino, 2011; V. Mormando – F. Bottalico, Le falsità in atti. La tutela penale della documentabilità nel sistema dei reati contro la fede pubblica, Bari, 2017.

[2] Cass.pen., sez. V, 19.12.19, n. 2496.

[3] S. Orbetta., Falsità commessa dal privato in atto pubblico (nota Cass. pen. Sez. V, 14 dicembre 2010, n. 3681), in Dir. pen. e proc., 3, p. 295.

[4] F. Martin, Falsità in autocertificazione e Covid-19, in Ius in Itinere, 07.01.21 link.

[5] Cass.pen., sez. V, 17.09.18, n. 48884.

[6] F. Lombardi, Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione, in Giur. pen., 24.03.20, link.

[7] S. Confalonieri,  Il nemo tenetur se detegere nel labirinto delle fonti. Riflessioni a margine di Corte Cost., ord. n. 117 del 2019, in Dir. pen. cont., 1, 2020, p. 110, link.

[8] M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico. delitti contro la fede pubblica, epidemia e delitti contro la persona alla prova dell’emergenza sanitariain Riv. Ita. Dir. e Proc. Pen., 2020, p. 503.

[9] Cass. pen., sez. V, 19.01.16, n. 9195.

[10] Cass. pen., sez. V, 21.09.20, n. 27565.

[11] Tribunale di Milano, Giudice per le Indagini Preliminari, 16.11.20, sent. n. 1940/20.

[12] Tribunale di Reggio Emilia, Giudice per le Indagini preliminari,  27.01.21, sent. n. 54/21.

[13] F. Martin, Op. cit..

[14] Cort. Cost., 27.06.96, n. 223; Corte Cost., 13.07.94, n. 68.

[15] F. Martin, I DPCM tra vecchie e nuove problematiche: la caduta della foglia di fico?, in Giur. Pen., 19.03.21, link.

[16] Tribunale di Milano, Giudice per le Indagini Preliminari, 12.03.21, sent. n. 839/21.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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