L’incostituzionalità della legge 9 gennaio 2019, n. 3, c.d. “Spazzacorrotti”
Definito come una vera “rivoluzione copernicana” il recente comunicato (allegato in calce) della Corte Costituzionale in riferimento alla c.d. legge SpazzaCorrotti, ha stravolto l’assetto delle norme relative all’esecuzione della pena.
Dopo che diciassette giudici dell’esecuzione e del Tribunale di Sorveglianza hanno sollevato la questione di illegittimità costituzionale della l. n. 3/2019[1], nella misura in cui lamentavano l’assenza di una disciplina ad hoc che evitasse di far retroagire gli effetti della legge in esame per i crimini commessi prima dell’entrata in vigore della stessa, l’intervento dei giudici della Costituzione è stato necessario.
Prima di procedere alla disamina della decisione della Corte Costituzionale è opportuno ripercorrere brevemente le ragioni che hanno spinto il legislatore all’elaborazione della legge in esame.
La legge n. 3/2019 “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, meglio conosciuta come legge c.d. Spazzacorrotti, ha l’obiettivo di far confluire nell’area del penalmente-rilevante quelle condotte lesive per la pubblica amministrazione, in primis combattendo la corruzione e altri reati affini quali corruzione e peculato.
Affinché la legge avesse un impatto dirompente e per neutralizzare tali condotte, soprattutto a seguito di un’espansione significativa di fenomeni corruttivi presenti nelle P.A., il legislatore ha incorporato dette fattispecie delittuose tra i più gravi reati: associazioni di stampo mafioso, terrorismo, eversione dell’ordinamento, riduzione in schiavitù e prostituzione minorile.
La decisione del normatore non è stata casuale ma risponde ad una esigenza ben precisa, ovvero evitare l’accesso ai benefici premiali (quali permesso premio) e l’esecuzione della pena in misura alternativa (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà), se non in presenza di una collaborazione con la giustizia ad opera del condannato.
La legge Spazzacorrotti prevedeva, quindi, un inasprimento del trattamento sanzionatorio con effetti che si riflettono al momento dell’espiazione della pena.
Il nodo cruciale si rilevava, però, nell’assenza di una disciplina transitoria e quindi, anche per coloro che avendo commesso il reato contro la P.A. prima dell’entrata in vigore della predetta legge, condannati con una pena inferiore ai quattro anni così da poter eseguire la pena in misura alternativa (nello specifico nella forma della detenzione domiciliare), con l’entrata in vigore della legge spazzacorrotti vedevano mutarsi la “qualità” della pena, con l’impossibilità di accedere ai benefici premiali, se non in presenza di una collaborazione.
Questa conclusione comportava l’estensione della disciplina dell’art. 4 bis o.p. ai reati descritti della legge n. 3/2019 prevedendo una disciplina analoga a quella prevista per i c.d. reati di prima fascia, caratterizzati da un disvalore sociale significativo e per i quali ai fini della concessione dei benefici premiali, quali misure alternative o l’accesso ai permessi premio è richiesto, a pena di inammissibilità, la collaborazione del detenuto con la giustizia.
L’art. 4 bis o.p. difatti recita “ L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58 ter della presente legge o a norma dell’articolo 323 bis, secondo comma, del codice penale: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 416 bis e 416 ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 octies e 630 del codice penale, all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni”.
Inoltre, si osservava che non poteva operarsi un’interpretazione favor rei nel senso di non far retroagire gli effetti (sfavorevoli) della legge Spazzacorrotti anche ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge stessa, e ciò in virtù del divieto di retroattività che opera unicamente nei confronti delle norme penali che hanno natura sostanziale .
A tal proposito giova ricordare che, come da giurisprudenza consolidata, le norme attinenti l’esecuzione della pena, poiché non contribuiscono alla descrizioni della norma penale, hanno una natura processuale e sono sottoposte al principio del tempus regit actum.
L’impostazione della legge, oltre a porsi in contrasto con i principi della Costituzione ed in particolare con gli articolo 25 c. 2 e 27 Cost., risultava anche incompatibile con riferimento ai principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Specificatamente l’art. 7 CEDU disciplina il principio di prevedibilità[2] inteso come strumento in grado di far accedere e conoscere preventivamente le reazioni dell’ordinamento di fronte alla commissione di un fatto reato (in un’ottica di calcolabilità delle conseguenze).
Sulla medesima scia anche la giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 51905/2019[3] , aveva evidenziato delle possibili ombre di incostituzionalità, in particolare si è affermato che «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola”, senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con il principio di legalità»
Queste argomentazioni avanzate dai giudici dell’esecuzione e della sorveglianza sono state poste all’attenzione dei giudici della Corte Costituzionale, i quali hanno accolto la questione di illegittimità costituzionale avanzata.
Asserendo che l’estensione della disciplina di cui all’art. 4 bis o.p., con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna, risulta un’interpretazione illegittima e incompatibile con il disposto di cui all’art. 25 Cost.
Ciò che maggiormente si rileva nel dispositivo della Consulta è che i giudici attribuiscono natura “sostanziale” alle norme dell’ordinamento penitenziario, laddove incidano sulla “qualità” della pena in maniera significativa, riverberando i suoi effetti (negativi) sulla restrizioni della libertà personale.
Le motivazioni opposte dai giudici rispetto all’incostituzionalità della legge c.d. spazzacorrotti sono esplicitate nella sentenza n. 32/2020, depositata dopo qualche settimana dal comunicato del 12 Febbraio.
Dalla lettura della suddetta sentenza si legge che “il principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, opera come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. Pertanto, se, di regola, è legittimo che le modalità esecutive della pena siano disciplinate dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non da quella in vigore al momento del fatto (anche per assicurare uniformità di trattamento tra i detenuti), ciò non può valere, sottolinea la sentenza, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. [4]
Da ciò, i giudici della Corte Costituzionale dichiarano illegittima la legge n. 3/2019 in riferimento all’art. 1, comma 6, lettera b, nella parte in cui estende la disciplina di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (relativamente al divieto di accesso alle misure alternative) per soggetti condannati prima dell’entrata in vigore della predetta legge.
Analogamente, si dichiara l’incostituzionalità dell’art.1, comma 6, lettera b, in cui non ammette la concessione del beneficio del permesso premio ( ex art. 30 ter o.p.) ai soggetti condannati con sentenza emessa prima della legge predetta.
In chiusura, dalla recente decisione dei giudici della Costituzione si evidenzia un avvicinamento tra la giurisprudenza italiana e quella europea, nella misura in cui si aderisce ad una visione “sostanziale” delle norme relative all’esecuzione della pena.
COMUNICATO DEL 12 febbraio 2020 : www.cortecostituzionale.it
SENTENZA della Corte Costituzionale n. 32/2020.
[1] Per una lettura della legge si veda qui: www.gazzettaufficiale.it
[2] ART 7 CEDU :Nulla poena sine lege
- Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
- Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
[3] Corte di Cassazione Sez. Penale sentenza n. 51905 del 23 Dicembre 2019.
[4] www.camminodiritto.it.
Tayla Jolanda Mirò D’aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA “the european law students association” una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell’anticorruzione e dell’antimafia.