venerdì, Luglio 26, 2024
Labourdì

Smart working e workation: una panoramica

A cura di Chiara Limiti

 

Lo smart working, o lavoro agile, seppure previsto per alcuni settori già da qualche anno, ha fatto la sua necessaria e repentina apparizione nell’immaginario e nella pratica comune con la pandemia da COVID-19. Infatti, la necessità di assicurare la continuità lavorativa, nonostante le importanti restrizioni fisiche e alla mobilità, ha spinto ad una massiccia attivazione dello smart working sia in ambito privato che in ambito pubblico. Nel corso del tempo, poi, ci sono stati da una parte, importanti sviluppi in merito alla nuova modalità di lavoro, dall’altra alcuni ripensamenti e ritorni al passato. Infatti, se gli entusiasti del lavoro agile sostengono che questo sia in grado di apportare notevoli vantaggi alle organizzazioni sia in termini di produttività, di welfare e di conciliazione vita-lavoro ma anche di raggiungimento degli obiettivi; non mancano le voci di dissenso che mettono in evidenza come a fronte di una indubbia facilitazione della vita lavorativa di una parte, anche consistente, dei lavoratori si è assistito all’acuirsi di dinamiche non produttive, agevolate dal ridotto controllo e ad un certo grado di anomia nell’ambito dell’attività lavorativa.

Sia nel pubblico che nel privato il testo normativo di riferimento in materia è costituito dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, precedente alla pandemia, con particolare riferimento agli articoli da 18 a 24, così come modificata dalla legge 4 agosto 2022, n. 122. La legge 22 maggio 2017, n. 81, prescrive che il lavoro agile sia rimesso all’accordo individuale con il lavoratore[1], ad eccezione dei soggetti “fragili”[2] per i quali, sia nel privato che nel pubblico[3], fino al 31 dicembre 2023 è prevista un’apposita disciplina. Questo accordo deve definire sia la durata che le condizioni attraverso le quali esperire il recesso; deve stabilire le modalità di esecuzione del lavoro e determinare gli strumenti tecnologici che devono essere utilizzati e da chi debbono essere forniti, tutto nel rispetto del diritto del lavoratore alla disconnessione.

Inoltre, nel settore privato, nel 2021 è stato sottoscritto il Protocollo nazionale del lavoro agile per il settore privato che detta i requisiti e i contenuti dell’accordo individuale fissandone le regole. Il testo, infatti, disegna le linee di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e territoriale, tenuto conto di quanto stabilito dalla richiamata legge n. 81/2017. Oltre a ribadire la necessità di un accordo tra le parti, il Protocollo nazionale del lavoro agile per il settore privato, siglato dal Ministero del lavoro e dalle rappresentanze sindacali, prevede che:

  • l’adesione a questa modalità lavorative debba avere una natura volontaria;
  • non può comportare il licenziamento, e neanche essere oggetto di ammonizioni sul piano disciplinare, l’eventuale mancata adesione da parte del lavoratore.

Le resistenze delle aziende all’adesione a questo nuovo modello sono da riscontrarsi nella cultura aziendale prevalente che vede nella possibilità di controllo fisico l’unica modalità di esercizio della leadership e nella ancora non completa digitalizzazione dei processi.

Nel pubblico impiego, si assiste, nella fase di normalizzazione del lavoro agile che è seguita al periodo pandemico, all’adozione delle Linee guida Del Ministero per la Pubblica Amministrazione in materia. Queste linee guida dettano delle precondizioni all’attivazione dello smart working:

  • l’invarianza dei servizi resi all’utenza;
  • l’adeguata rotazione del personale autorizzato alla prestazione di lavoro agile, assicurando comunque la prevalenza per ciascun lavoratore del lavoro in presenza;
  • l’adozione di appositi strumenti tecnologici idonei a garantire l’assoluta riservatezza dei dati e delle informazioni trattati durante lo svolgimento del lavoro agile;
  • la necessità, per l’amministrazione, della previsione di un piano di smaltimento del lavoro arretrato, ove accumulato;
  • la fornitura di idonea dotazione tecnologica al lavoratore;
  • il prevalente svolgimento in presenza della prestazione lavorativa dei soggetti titolari di funzioni di coordinamento e controllo, dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti;
  • la rotazione del personale in presenza ove richiesto dalle misure di carattere sanitario;
  • il dovere di fornire al lavoratore idonea dotazione tecnologica, che garantisca la sicurezza e il divieto di ricorso all’utenza personale o domestica del dipendente, salvo i casi preventivamente verificati e autorizzati”[4].

La principale novità, oltre l’accordo tra le parti già prescritto dalla norma del 2017, è rappresentata dalla necessaria prevalenza della presenza in ufficio. Si tratta, chiaramente, di un richiamo importante alla popolazione dei dipendenti pubblici affinché ritornino ad occupare, almeno in prevalenza, le proprie scrivanie, ed è stato interpretato, in larga parte, anche nell’opinione pubblica, come una mozione di sfiducia nei confronti della fedeltà dei dipendenti pubblici e dello strumento dello smart working in generale. Le Linee guida, in ogni modo, sono state superate dalla tornata dei rinnovi contrattuali[5] che si è avuta nel pubblico impiego e che non prescrive in alcun modo l’obbligo di prevalenza in ufficio. Tuttavia, nonostante il superamento di questo riferimento dal punto di vista giuridico, le amministrazioni, nell’ambito della loro autonomia organizzativa, sembrano averlo fatto proprio ed averlo trasformato in un caposaldo, pur senza aver prodotto analisi o dati a suffragio o contrari.

A fronte di un sistema che da una parte fatica a svecchiarsi e ad immaginare nuove modalità di lavoro e dall’altro non riesce ancora ad integrare un sano sistema di misurazione della performance, che finalmente restituisca in maniera plastica un quadro sull’effettività produttività o sull’effettivo vantaggio o meno di alcune forme organizzative di lavoro, si registrano anche numerosi salti in avanti che disegnano panorami quasi immaginifici. Uno di questi salti in avanti, di cui si sente parlare ma che per il momento registra sporadiche sperimentazioni, esclusivamente in ambito privato, è il workation.

Il workation

Nonostante il dibattito sia ancora ben al di là dall’essere maturo, è inutile negare che lo smart working rappresenta non più soltanto una nuova modalità emergente per lo svolgimento della propria prestazione lavorativa, ma, anche se numerose aziende (alcune anche molto blasonate e in vista per l’attenzione alla qualità del lavoro) hanno richiamato in ufficio i propri dipendenti, sono sempre di più quelle che hanno fatto proprie modalità di lavoro ibrido, dove si assiste ad un’alternanza tra lavoro in presenza e lavoro da remoto. Se nella pubblica amministrazione, che spesso rappresenta un terreno fertile per la sperimentazione, il discorso sul lavoro agile è ancorato alla sottoscrizione dell’accordo individuale, all’individuazione delle fasce di contattabilità e al diritto alla disconnessione, nel mondo, almeno a livello teorico, si immaginano modalità di lavoro che non si limitano ad offrire uno strumento di conciliazione con le attività quotidiane e con i carichi familiari, ma che rappresentano dei veri e propri miraggi di benessere: il workation, ne è un esempio. Il workation è un termine che nasce dalla crasi tra due parole inglesi “work” e “vacation”, che ha iniziato ad essere usato già nel 2020, e che si traduce con la possibilità concessa ai lavoratori di lavorare non solo dal proprio domicilio (o dal bar sotto casa o dalla casa di amici) ma direttamente da un posto di vacanza[6]. La previsione che il lavoro da remoto debba essere collegato ad una sede fissa esterna all’ufficio, riporta alla concezione del telelavoro (presente già da tempo nell’ambito della pubblica amministrazione) prevista dall’articolo 14, comma l, della Legge 7 agosto 2015, n. 124, (”Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche”), che prescrive che le Amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, adottino misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’ attuazione del telelavoro e per la sperimentazione di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro 3 anni, ad almeno il 10% dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera. Si tratta, tuttavia, di una concezione abbastanza datata, seppure è stata almeno in parte ripresa dalla previsione del lavoro da remoto, distinto dal lavoro agile/smart working, nell’ambito della nuova tornata contrattuale avutasi nella pubblica amministrazione. Questa necessità di collegare la prestazione fuori ufficio al domicilio del dipendente, trovava infatti la propria motivazione nella necessità da parte del datore di lavoro di assicura la salute e la sicurezza dei posti di lavoro. Allo stato attuale, come sperimentato in alcuni casi, nell’accordo di lavoro agile viene richiesta al dipendente la valutazione circa l’idoneità degli ambienti. Lavorare da remoto, infatti, non vuol dire necessariamente farlo da una scrivania ma, almeno a livello potenziale, qualsiasi luogo, giustamente attrezzato, può rappresentare un’ottima postazione di lavoro… persino una sdraio e un ombrellone su una spiaggia. A tale proposito, si vuole sottolineare come la citata legge 81 del 2017 non abbia in nessuna maniera imposto che il lavoro da remoto dovesse essere svolto dalla propria abitazione, ma anzi proprio nello spirito della normativa, e anche al fine di consentirne una distinzione dal telelavoro, lo si immagina declinato in numerose e diverse situazioni.

Non pochi a fronte di questa ipotesi soprattutto in Italia, ed in particolare nella pubblica amministrazione, hanno più di qualche critica da sollevare, perché non poche sono le difficoltà che devono essere affrontate. Dall’altra parte va sottolineato come le indagini più recenti individuino nello smart working e nel benessere lavorativo una delle precondizioni per tentare di essere competitivi nella caccia ai talenti[7].

Nella pratica la workation, ovvero la possibilità di svolgere la propria attività lavorativa anche da un posto di villeggiatura, è stato introdotto da alcune aziende e valorizzato alla stregua di un benefit. In alcuni casi le aziende hanno attivato degli accordi con delle strutture ricettive che si prestano e che presentano tutti i requisiti, ma è anche possibile pensare di lasciare semplicemente i dipendenti liberi di lavorare da dove vogliono magari in periodi specifici dell’anno. Si tratta, quindi, di un sistema che in qualche modo presuppone un superamento della logica della prevalenza in presenza: se fino ad ora, la normalizzazione dello smart working (dopo la fase emergenziale) è passata attraverso la previsione di modalità ibride (che prevedono l’alternanza tra giornate di lavoro in ufficio e giornate di lavoro fuori), la workation propone, anche solo in relazione a periodi limitati e specifici (come il periodo estivo o quello delle feste di Natale) e a particolari condizioni del dipendente, la possibilità di escludere la necessità del rientro in ufficio su base settimanale o mensile.

A tale proposito, l’esperienza più vicina al nostro contesto territoriale e più significativa è quella delle Assicurazioni Generali che nell’agosto scorso hanno deciso di chiudere i propri uffici di Mogliano Veneto e Verona, ricavandone un enorme risparmio in termini di consumi elettrici, e consentendo al proprio personale di lavorare senza recarsi nei rispettivi uffici, e senza incidere sulle ferie. Si tratta di 3500 unità di personale che hanno usufruito per il mese di agosto di un’estensione a cinque giorni la settimana dell’accordo denominato “Next Normal”, sottoscritto dall’azienda e dai sindacati due anni prima. Tale accordo già prevedeva per i lavoratori la possibilità di lavorare da casa tre giorni a settimana ed, in seguito all’aumento dei costi per gli spostamenti sostenuti dai dipendenti, è stato ampliato prevedendo la chiusura fissa delle sedi nella giornata di venerdì: “chiudere le sedi direzionali è innanzitutto una scelta di sostenibilità ambientale, se si pensa all’energia elettrica risparmiata e alla riduzione di emissioni di anidride carbonica prodotte da un numero minore di spostamenti dei dipendenti con mezzi privati[8]. Inoltre, l’accordo prevede anche la possibilità di godere dello smart working per tutta la settimana lavorativa anche in periodi diversi da quelli delle ferie se motivato da precise esigenze di tipo familiare.

I vantaggi dal punto di vista del lavoratore sono innegabili, anche attraverso una migliore e sempre più accentuata work life balance: se lo smart working rappresenta la soluzione per i problemi di conciliazione vita-lavoro, la workation rappresenta il punto di equilibrio tra lavoro e tempo libero.

Per le aziende, soprattutto nel momento in cui si sceglie una formula come quella prevista da Assicurazioni Generali, il vantaggio è costituito da una significativa riduzione dei costi. Resta, però, forse più come bagaglio culturale che come reale problema, il tema del controllo sull’attività lavorativa. Tema che potrebbe facilmente essere superato con un sistema di monitoraggio e valutazione delle performance che, soprattutto per quanto riguarda il settore pubblico, è adottato per norma ma sembra non convincere gli stessi soggetti che lo promuovono e lo approvano all’interno delle singole amministrazioni.

Quello che rimane un aspetto serio da considerare è la necessità di attenzione particolare per gli aspetti di salute e sicurezza e per le implicazioni che la workation può in tal senso determinare. A questo vanno sommati tutti gli aspetti relativi alla cybersecurity. Infatti, la possibilità di collegamento da reti non proprie e il cosiddetto metodo BYOD (Bring Your Own Device)[9], che tuttavia è ampiamente utilizzato anche al di fuori delle esperienze di workation, impongono all’azienda un ripensamento dei sistemi di sicurezza informatica e l’adozione di nuove strategie.

[1]Si tratta in realtà di una previsione che era già stata inserita nel disegno del lavoro agile ordinario così come disciplinato dalla Legge 22 maggio 2017 numero 81 che prevedeva in capo all’azienda e al lavoratore interessato l’obbligo di concludere un apposito accordo individuale che disciplini l’attività da remoto.

[2] I lavoratori fragili sono quei lavoratori affetti da malattie croniche che hanno portato a condizioni di immunodeficienza, da patologie oncologiche con immunodepressione anche correlata a terapie salvavita in corso o che siano affetti da più co-morbilità, anche in relazione all’età, e che per questi motivi abbiano un rischio più alto di contrarre l’infezione da Covid-19 in una forma più aggressiva e debilitante.

[3] Art. 8 del decreto 132 del 29 settembre 2023 – Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali – prevede una serie di novità in materia di accesso al lavoro agile per i lavoratori fragili, in deroga alla normativa sul lavoro a distanza contenuta Legge 22 maggio 2017 numero 81.

[4] Smart working, otto domande e risposte per fare chiarezza, Ministero della funzione pubblica, Ministro Paolo Zangrillo. https://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/04-01-2022/nota-del-dipartimento-della-funzione-pubblica

[5] Si ricorda, infatti, che in funzione di quanto previsto dalla privatizzazione del pubblico impiego questo è prioritariamente assoggettato alla disciplina del lavoro privato dettata dal codice civile, dallo Statuto dei lavoratori, dalla contrattazione collettiva.

[6] Questa nuova modalità lavorativa ha un impatto forte anche in termini di tutela del turismo interno.

[7] La Dell Technologies in collaborazione con la società di ricerche Savanta ComRes ha, a proposito, condotto uno studio, denominato Future-Proof, e condotto in 15 Paesi nel mondo su un campione rappresentativo di adulti nella fascia d’età 18-26, dal quale è emerso che il lavoro da remoto rappresenta un aspetto fondamentale nella scelta del lavoro da parte della cosiddetta Generazione Z. Per ben il 63% del campione lo smart working rappresenta un elemento condizionante nella scelta del posto di “Il 63% del panel cita addirittura lo smart working come un elemento condizionante della scelta del posto di lavoro. Il tutto in uno scenario in cui – secondo il recente Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano – nel 2022 sono stati circa 3,6 milioni i lavoratori da remoto, con un calo di quasi 500 mila rispetto al 2021.

[8] Gianluca Perin, country general manager di Generali Italia.

[9] L’approccio Bring Your Own Device (BYOD) è l’insieme di criteri in un’azienda che consente ai dipendenti di utilizzare i dispositivi personali (telefono, laptop, tablet o altro) per accedere alle applicazioni e ai dati aziendali, anziché costringerli a utilizzare i dispositivi forniti dall’azienda per tale scopo.

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