venerdì, Marzo 29, 2024
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Tutela e registrazione del marchio tra Italia ed USA: il caso delle Rockstud di Valentino

L’industria della moda costituisce uno dei settori trainanti dell’economia del nostro Paese e rappresenta un valore significativo in termini di produzione esportata in tutto il mondo. Riconosciuto a livello mondiale come simbolo di eccellenza e qualità, il made in Italy è spesso protagonista di casi di contraffazione, sfruttamento parassitario e altre violazioni della proprietà intellettuale. Infatti, la globalizzazione dei mercati e la diffusione del web ha indubbiamente ampliato le opportunità di vendita e pubblicità per le aziende, ma al tempo stesso ha moltiplicato le minacce e consentito lo sviluppo di fenomeni come ad esempio il cybersquatting[1] e il typosquatting[2].

Per questo motivo, nelle grandi aziende di moda, assume un ruolo sempre più rilevante la gestione del patrimonio IP (Intellectual property) e la tutela del marchio inteso come segno distintivo che consente ad un’azienda di distinguersi, di identificarsi ed essere competitiva nel mercato globale. La protezione del marchio deriva, infatti, dal valore attrattivo – in esso incorporato – e dalla sua capacità di consentire ai consumatori di riconoscere alcuni prodotti come provenienti da una specifica azienda.

In particolare, nel settore dei Luxury goods, tale funzione assume maggior rilievo in quanto si tratta di beni definiti posizionali, cioè il cui acquisto è legato non tanto al loro utilizzo, bensì al fatto che codesti fanno sorgere nel consumatore – che li possiede – la percezione di acquisire una sorta di “etichetta” che lo identifica in un determinato status socio-economico. La possibilità di ottenere un riconoscimento sociale con un minimo investimento spinge talvolta i consumatori ad acquistare imitazioni o falsi facendo venir meno quella funzione distintiva tipica del marchio a cui il consumatore associa un giudizio di apprezzamento qualitativo.

  1. Il caso delle Rockstud di Valentino

È proprio in questo contesto che si colloca il caso delle scarpe Rockstud firmate Valentino Garavani che, da anni, lotta contro la contraffazione del celebre modello borchiato. Il modello Rockstud è stato introdotto per la prima volta nella collezione Autunno/Inverno 2010, quando la Maison era condotta dai direttori creativi Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli ed è ancora oggi uno dei modelli più amati e venduti, tra il 2014 e il 2019 ha infatti fruttato a Valentino 268 milioni di dollari.

Tuttavia, la particolarità e popolarità delle Rockstud ha fatto sì che apparissero su piattaforme online, soprattutto dei marchi di fast fashion, numerose imitazioni a prezzi di gran lunga inferiori rispetto all’originale. Al fine di contrastare tale attività illecita, Valentino, congiuntamente ad Amazon[3], ha intentato un’azione legale contro la società Buffalo, Kaitlyn Pan Group e l’imprenditore Hao Pan per violazione dei diritti di proprietà intellettuale e per violazione delle politiche di Amazon, con l’accusa di contraffazione del modello sui siti kaitlynpanshoes.com e amazon.com.

Inoltre, nel dicembre 2020, anno del decimo anniversario dall’uscita del modello Rockstud, Valentino ha ottenuto la registrazione del marchio di tre varianti dell’iconica scarpa borchiata, in particolare di una pump con cinturino singolo a forma di T alla caviglia[4], una pump con 2 cinturini alla caviglia e un cinturino a T[5] e una ballerina[6].

La richiesta di registrazione, presentata all’Ufficio brevetti e marchi degli Stati Uniti “USPTO” nell’ottobre 2019, era stata inizialmente rigettata per mancanza di prove sufficienti del carattere distintivo del modello. Gli esaminatori dell’USPTO hanno infatti sostenuto che numerosi marchi di calzature usano comunemente le borchie lungo le parti superiori e la cinghia delle scarpe come elemento decorativo e questo fa sì che i consumatori le percepiscano solo come una caratteristica ornamentale e non distintiva del prodotto[7].  La risposta della Maison a tale respingimento non ha tardato ad arrivare e in particolare i legali di Valentino hanno sostenuto che le scarpe Rockstud “sono ben note e immediatamente riconoscibili dai consumatori come simbolo di alta qualità” e grazie alla loro produzione e vendita continua dal 2010 hanno acquisito un carattere distintivo tale da poter essere registrate come marchio[8]. Le prove presentate dagli avvocati si basano principalmente su vendite, presenza sul mercato, fama e pubblicità delle scarpe che da ormai un decennio costituiscono un pilastro sugli scaffali delle boutique Valentino. Difatti, nei cinque anni successivi all’introduzione del modello, i ricavi dell’azienda sono raddoppiati e questo grazie alla vasta promozione e pubblicità data anche dalle numerose celebrità che sono comparse su riviste e social media indossando il modello Rockstud. In ultimo, a sostegno della propria tesi, Valentino ha posto l’attenzione su noti esempi di marchi registrati, come la suola rossa di Christian Louboutin[9] e il design intrecciato di Bottega Veneta, paragonando il loro carattere distintivo a quello del suo modello di calzature.

  1. Quale disciplina di riferimento?

Il caso delle Rockstud di Valentino dimostra quanto per le aziende sia fondamentale tutelarsi dall’utilizzo improprio dei segni distintivi, che le caratterizzano e distinguono nel mercato, attraverso gli strumenti giuridici previsti in materia di intellectual property: primo fra tutti, la registrazione del marchio[10].

In primis, è opportuno precisare che la vicenda in questione si svolge negli Stati Uniti, dunque la normativa di riferimento è la US Trademark Law[11] e lo USPTO è l’organismo che a livello federale si occupa della registrazione e concessione dei marchi d’impresa.

In particolare, il marchio negli Stati Uniti è disciplinato dal Trademark Act del 1946, comunemente conosciuto come Lanham Act che opera una distinzione tra trademark e service mark: il trademark, consiste in una parola, un nome, un simbolo, un logo o una combinazione di questi, volti a identificare l’origine dei prodotti di un individuo o di un’azienda, distinguendoli dagli altri[12]. Il service mark, ha le medesime connotazioni del trademark, ma non identifica un prodotto, bensì un servizio. Entrambi, per poter essere registrati come marchi d’impresa, devono possedere capacità distintiva, cioè devono essere in grado di distinguere i beni e servizi – dell’azienda che li produce – da quelli attribuibili ad altri soggetti al fine di evitare che si ingeneri confusione tra i consumatori incidendo sulla loro scelta di acquisto.

Sulla base del requisito di “distinctiveness” i marchi sono suddivisi in: generici, descrittivi, fantasiosi, casuali e allusivi. Per quanto riguarda la prima categoria, il Lahnam Act la considera inidonea ad essere registrata come marchio in quanto “specifica al consumatore solo che tipo di prodotto è e non da dove o da chi proviene”. Il marchio descrittivo invece può essere registrato solo nel “Registro supplementare”[13] e potrà ottenere una tutela completa, attraverso l’iscrizione nel “Registro principale” solo quando verrà data prova del fatto che, grazie al suo utilizzo nel tempo, abbia acquisito carattere distintivo (c.d. “secondary meaning”). Infine, gli ultimi tre tipi di marchio rientrano a pieno nella protezione prevista dal Lanham Act in quanto inherently distinctive, cioè considerate distintive per loro natura.

Negli USA, come in tutti i Paesi di Common Law, la registrazione del marchio è certamente vantaggiosa per l’azienda, tuttavia non costituisce un requisito necessario per ottenere tutela contro la violazione da parte di terzi, infatti vige il principio del “first to use” in forza del quale è considerato titolare del marchio e quindi del diritto al suo uso esclusivo, il soggetto che dimostra di averlo utilizzato per primo in commercio. Questa regola si contrappone a quella che si applica nell’ordinamento italiano che, sebbene tuteli il marchio sulla base di principi analoghi a quelli fin qui esposti, si basa sul principio del “first to file” secondo cui il diritto all’uso esclusivo del marchio spetta a chi per primo lo registra a prescindere dal suo utilizzo nel mercato.

  1. Qual è la normativa italiana?

Nel contesto nazionale, il marchio è disciplinato dagli articoli 2569- 2574 del Codice Civile e dal Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30)[14].

La registrazione del marchio consente al titolare di ottenere il diritto all’uso esclusivo del marchio prescelto e pertanto rappresenta uno strumento per difendersi da segni concorrenti sul mercato che potrebbero determinare un rischio di confusione tra i consumatori o danneggiare la reputazione dell’azienda titolare dello stesso. Infatti, il titolare del marchio, il cui diritto di esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere nei suoi confronti l’azione di contraffazione (artt. 124 c.p.i.) al fine di ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo delle quali è stata attuata la contraffazione.

Ai sensi dell’articolo 7 del Codice della Proprietà Industriale possono essere registrati come marchio “tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.”

Tuttavia, affinché un marchio sia registrato validamente deve possedere determinati requisiti: novità, liceità e capacità distintiva ed è proprio quest’ultimo che ha avuto un ruolo centrale nella registrazione del marchio delle Rockstud. È quindi opportuno chiedersi: quando il marchio è dotato di carattere distintivo?

Possiamo parlare di capacità distintiva quando il marchio, in relazione alla percezione del pubblico, è idoneo a identificare il bene o servizio per il quale è stata chiesta la registrazione come proveniente dal suo titolare e pertanto lo distingue da beni e servizi provenienti da altre aziende concorrenti. Il Legislatore individua quali sono i segni privi di capacità distintiva all’articolo 13, 1° comma, c.p.i. stabilendo che: “non possono costituire oggetto di registrazione, come marchi d’ impresa, i segni  divenuti di uso comune nel linguaggio corrente e negli usi del commercio, nonché quelli costituiti unicamente dalle denominazioni generiche dei prodotti o dei servizi; inoltre non possono essere registrate le indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, ad esempio quelle che indicano il valore, la provenienza geografica, la qualità e la quantità o altre caratteristiche del prodotto“.

Di contro, al comma successivo è prevista una deroga secondo la quale “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo.”

In relazione all’attitudine a distinguere è possibile suddividere i marchi in due categorie[15]: i marchi forti, ossia di quei marchi dotati di un’accentuata capacità distintiva, si tratta – generalmente – di marchi di pura fantasia che consistono in segni che non appaiono in alcun modo legati al prodotto contrassegnato, questo fa sì che per la loro tutela è sufficiente una minima somiglianza da parte del marchio altrui che possa generare confusione tra i consumatori. I marchi deboli, per contro, sono dotati di una scarsa capacità distintiva in quanto concettualmente legati al prodotto attraverso denominazioni generiche o indicazioni meramente descrittive di esso. In questo caso sono sufficienti anche lievi modificazioni o aggiunte affinché sia esclusa la confondibilità con altri marchi.

Infine, bisogna sottolineare come la capacità distintiva sia un carattere dinamico del marchio, cioè in grado di variare nel tempo in relazione alla percezione che il pubblico ha di quel segno. Si parla in questo senso di secondary meaning, cioè quel fenomeno per cui un segno inizialmente privo di capacità distintiva, grazie al suo uso e ad un’accorta pubblicità, acquisisca tale requisito per poter essere registrato come marchio.

In conclusione, dall’analisi della disciplina sia statunitense che italiana emerge come il marchio come simbolo distintivo, di garanzia, di qualità e comunicazione sia una risorsa preziosa per le aziende e in quanto tale è importante che sia registrato e tutelato.

[1] Il Cybersquatting consiste nella registrazione come nome a dominio di un termine identico o simile a quello di un marchio famoso.

Per approfondire si legga: CARBONARA, Cybersquatting e brand di lusso: il caso Jacquemus, Ius in itinere, disponibile al seguente link https://www.iusinitinere.it/cybersquatting-e-brand-di-lusso-il-caso-jacquemus-31859

[2] Il Typosquatting consiste nell’utilizzo di un nome a dominio di un marchio altrui, ma con errori ortografici.

[3] Si legga anche: RIEDO, Amazon e il mercato del falso online: complice o paladina della tutela del marchio?, Ius in itinere, disponibile al seguente link https://www.iusinitinere.it/amazon-e-il-mercato-del-falso-online-complice-o-paladina-della-tutela-del-marchio-12941

[4]provvedimento dell’USPTO disponibile qui 6,219,645

[5] provvedimento dell’USPTO disponibile qui 6,219,646

[6] provvedimento dell’USPTO disponibile qui 6,219,641

[7] Fonte : https://www.thefashionlaw.com/valentino-lands-a-trio-of-trademark-registrations-for-its-famed-rockstud-footwear/

[8] https://www.thefashionlaw.com/valentino-lands-a-trio-of-trademark-registrations-for-its-famed-rockstud-footwear/

[9] https://www.thefashionlaw.com/valentino-says-rockstud-pump-is-just-as-famous-as-louboutins-red-sole/

Per approfondire si legga: VALERIANI, Il caso Louboutin: apologia di una suola rossa, Ius in itinere, disponibile al seguente link https://www.iusinitinere.it/il-caso-louboutin-apologia-di-una-suola-rossa-11324

[10] Per approfondire: GUARINO, La disciplina del marchio: quali requisiti e quale tutela?, Ius in itinere, disponibile al link https://www.iusinitinere.it/il-marchio-quali-requisiti-e-quale-tutela-6849

[11] Disponibile al sito: https://www.uspto.gov/sites/default/files/documents/tmlaw.pdf

[12] Lanham Act, § 45 (a); 15 U.S.C. § 1127 (2000) “The term “trademark” includes any word, name, symbol, or device, or any combination thereof- (1) used by a person, or (2) which a person has a bona fide intention to use in commerce and applies to register on the principal register established by this chapter,- to identify and distinguish his or her goods, including a unique product, from those manufactured or sold by others and to indicate the source of the goods, even if that source is unknown.”

Per approfondire si legga: ORLANDINI, La tutela del fashion design nei Paesi di Common Law, Ius in itinere, disponibile al seguente link https://www.iusinitinere.it/la-tutela-del-fashion-design-nei-paesi-di-common-law-32021

[13] Il Lahman Act prevede due tipi di registri: un “Registro principale” in cui sono iscritti i marchi per i quali si presume la validità in quanto idonei a contraddistinguere in modo inconfondibile e univoco la fonte da i cui i prodotti, da esso contrassegnati, provengono. L’iscrizione a tale registro consente al marchio una protezione completa. Vi è poi un “Registro supplementare” in cui sono iscritti i marchi che solo potenzialmente hanno tale caratteristica e perciò per questi è prevista una tutela più debole e temporanea (5 anni) fino a quando non abbiano acquisito una distintività tale da poter essere registrati nel “Registro principale”.

[14] Disponibile qui: https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/testi/05030dl.htm

[15] Sul tema: Cassazione Civile, Sez. I, 27 febbraio 2004, n. 3984 con cui è stato precisato che “è noto che la distinzione fra i due tipi di marchio, “debole” e “forte”, si riverbera sulla loro tutela nel senso che, per il marchio debole, anche lievi modificazioni o aggiunte sono sufficienti ad escludere la confondibilità, mentre, al contrario, per il marchio forte, devono ritenersi illegittime tutte le variazioni e modificazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del “cuore” del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo che costituisce l’idea fondamentale in cui si riassume caratterizzando la sua spiccata attitudine individualizzante”.

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